Céline rivisitato in tempo di crisi

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Per abbattere i tassi di disoccupazione, abbatteranno i disoccupati? Se lo chiedeva Louis-Ferdinand Céline nell’inverno del 1933, a pochi mesi dall’avventurosa pubblicazione del suo Viaggio al termine della notte. Un libro edito in sincrono, nel ’32, con un’altra grande disamina della lunga deriva di vita e lavoro nel secolo che tardiamo a lasciarci alle spalle, quell’Operaio di Ernst Jà¼nger che, nel suo piano elementare, può (anche) essere letto come l’altra faccia della falsa moneta della tecnica messa alla berlina nel Viaggio. Con una differenza, tra le tante che qui si omettono: se in Der Arbeiter è – come da sottotitolo – di Herrschaft e Gestalt, dominio e forma e, di conseguenza, di mobilitazione totale che si fa questione, nel Voyage il tragitto è inverso, tanto che non è più al piano agonistico e drammatico, ma alla caleidoscopica e dirompente potenza dell’infamia e dell’informe in una prefigurata era di mobilisation infinie che si guarda. 
Nei panni del medico sociale
Eppure entrambi, Jà¼nger e Céline, si sporgono sullo stesso abisso. Uno dall’alto, l’altro dal fondo. Uno gettando lo sguardo oltre le sue elitarie scogliere di marmo, l’altro alzando gli occhi duri da bretone sopra il fango che si deposita nei sottopassi della Storia. Una Storia che, nelle peripezie della coppia Bardamu-Robinson del Voyage au bout de la nuit, riveste tratti di scapestrato simbolismo collettivo. Il Viaggio è anche il sogno americano che si schianta – travolgendola – contro un’Europa avvilita dalla guerra passata e imminente, dalla fame e dalla crisi del ’29 e da un colonialismo che si appresta a mutarsi – grazie alla vita malata messa al lavoro – nel più temibile dei contrappassi: una «endocolonizzazione» dell’esistenza, in nome di pari libertà , fraternità , uguaglianza. Una crisi che, in Francia, dispiegò gli effetti più duri proprio nel ’32 provocando, tra l’altro, la caduta – su questioni, ironia delle cose, di patrimoniali e debito estero – del governo di à‰douard Herriot, inaugurando l’era delle grandi truffe bancarie. È di quegli anni il prototipo di molti crack finanziari moderni, quell’affaire Staviski che travolse il Crédit Municipal de Bayonne e un sistema ben più complesso di partite doppie tra politica e affarismo scritte con l’inchiostro simpatico di un grande imbroglio istituzionale. 
Entrambi guardano lo stesso abisso o almeno così vogliono far credere. Poco importa, dunque, che i due, Céline e Jà¼nger, si siano fiutati e rifiutati, nei mesi trascorsi dall’autore di Die Totale Mobilmachung (1930) a smistar lettere nella Parigi occupata. Di Céline, nel suo diario Jà¼nger ricorderà  che era «grande, ossuto, forte, un po’ goffo, vivace nella discussione, anzi nel monologo», oltre che «sorpreso, urtato di sentire che noi soldati non fuciliamo, non impicchiamo e non sterminiamo gli ebrei; sorpreso che qualcuno, avendo una baionetta a disposizione, non ne faccia un uso illimitato». Sull’antisemitismo di Céline non è forse il caso di soffermarsi (lo fanno, da prospettive differenti, storica e di critica culturale, due lavori di Germinario e De Benedetti segnalati nella scheda a fianco), per evitare banalità  e non meno scontate condanne. 
Resta un problema: se Céline non fosse stato antisemita, ci avrebbe forse offerto la più grande lettura della miseria del nostro tempo (Aragon si pronunciò in tal senso, dichiarando il Viaggio come il più autentico e sentito romanzo comunista. Altri lo seguirono a ruota). Ma se non fosse stato antisemita, non ci avrebbe offerto la più grande lettura della miseria del nostro tempo. Non se ne esce, nemmeno istituendo soluzioni di continuità  tra un Céline apolitico e un Céline politico, tra un prima e un dopo i libelli antisemiti. Tutto è già  in nuce nel primo Céline e tutto è in nuce nello scrittore, perché tutto – si ha l’impressione – è da sempre in potentia in un patrimonio culturale che la Francia si è apprestata a ricacciare sotto il tappeto, come si fa con la polvere. 
Nell’articolo uscito su «Le Mois» (1 febbraio – 1 marzo 1933) con il titolo Pour tuer le chomage tueront-ils les chà´meurs? chi prende posizione non indossa la maschera e il sarcasmo dello scrittore né (ma qui, appunto, il discorso si farebbe scivoloso) quella dell’apertamente violento antiborghese e antisemita delle Bagatelles pour un massacre edite da Denoà«l nel 1937 e tradotte dal Corbaccio l’anno seguente. Chi parla, su «Le Mois», indossa ancora abiti e contegno del medico sociale, con il suo freddo dominio delle cifre e la sua preoccupazione per le condizioni di vita del proletariato industriale. 
Laureato in medicina, Louis-Ferdinand Destouches aveva operato per i servizi sanitari della Società  delle Nazioni e, come medico del lavoro, presso gli stabilimenti americani della Ford, dopo aver trovato impiego come operaio e essersi sentito ripetere – si legge nel Voyage – che «non ti serviranno a niente qui i tuoi studi, ragazzo! Mica sei venuto qui per pensare ma per fare i gesti che ti ordineranno di eseguire. Non abbiamo bisogno di creativi nella nostra fabbrica. È di scimpanzé che abbiamo bisogno». Nel 1930, Céline aveva già  all’attivo alcuni saggi di medicina sociale che in qualche modo anticipano le pagine del Viaggio sulle condizioni della manodopera industriale alla Ford e sui quartieri popolari di Parigi. L’articolo apparso su «Le Mois» è però relativo a un altro viaggio compiuto dallo stesso Céline, non negli Stati Uniti ma in una Germania sull’orlo di quel lungo inverno che l’avrebbe presto condotta a una tragica rovina. Il 5 marzo 1933, il Partito Nazionalsocialista vinse le elezioni e a qualcuno parve addirittura un segno di pacificazione interna o, comunque, un buon segno per la ripresa dell’Europa. 
Sofismi al posto di azioni
Ma, come osservava Céline, «la pace non interessa nessuno e la fraternità  viene a noia». Soprattutto in tempi di crisi. Come si ridurrà  la disoccupazione?, si chiede il dottor Destouches. I tecnici dei ministeri sembrano avere, per lui, indocile lettore di statistiche, una sola risposta: «Con la sparizione graduale dei disoccupati». Questo perché «la mortalità  crescente e le malattie da fame finiranno, nell’arco di cinquant’anni, per assorbire tutti i “senza lavoro”. Ecco quello che non si dice chiaramente, ma si predice come normale negli ambienti “bene informati”». E nel frattempo? Nel frattempo, conclude, «il sussidio mensile è di circa 250 franchi, e proprio il sussidio, nella realtà  dei fatti, condanna il disoccupato a una morte lenta per fame. I pubblici poteri assumono con franchezza questo stato di cose? Lo sanno? Si e no». Con un sussidio di 250 franchi al mese, osservava dunque l’attento Céline, bastano 4 anni per vedersi ragionevolmente morire di fame e questo perché «su quattro tedeschi il primo mangia troppo, altri due mangiano secondo il proprio appetito e il quarto… Beh, il quarto crepa lentamente per denutrizione. Ecco un problema che un bambino di dieci anni, dotato nella media, potrebbe risolvere in dieci secondi. I sofismi invece la fanno da padroni, sofismi che sostituiscono le azioni, là  dove – al posto di quel bambino – interviene l’ipocrita, raffinata, riserva della ragione adulta. Perché gli adulti hanno imparato brillantemente a ragionare, ma su basi palesemente false. Un problema non rappresenta più un problema, quando tacitamente si è giurato di fare di tutto per non risolverlo. Non si tratta di capitalismo o di comunismo. Si tratta di ordine e buona fede». 
Il fatto che Céline non nutra, né abbia mai nutrito alcuna speranza di emancipazione per la classe operaia fu già  Paul Nizan a rilevarlo. Perché in Céline è all’opera – lo dimostra, tra l’altro, il puntiglioso lavoro di Germinario – una sfiducia sistemica, sistematica e radicale nella possibilità  storica che le cosiddette classi subalterne possano ribaltare a loro vantaggio un processo di de-emancipazione che, nell’opera dello scrittore del Viaggio, sembra tendere a un punto infinito. L’antropologia céliniana – che non solo è incline al pessimismo, ma oltre certi limiti sconfina nell’abiezione – mantiene però negli anni Trenta un suo dirompente profilo non privo di risvolti politicamente lucidi e persino profetici, nella sua prefigurazione distopica. Céline è un antiutopista, ma non ha bisogno di vagheggiare Nuovi mondi o nuove ere. Le ha viste, toccate, ne scrive. Nella «massa di inerzia civica», nelle «bestie senza fiducia» che (s)qualificano la condizione operaia a condizione di sub umanità  e dannazione perenni, Céline vede il peggior prodotto della bestia capitalistico-finanziaria. Un prodotto di quel luogo, la fabbrica, che altro non è se non il risvolto all’apparenza meno demoniaco di un letto d’ospedale. 
Masse di inerzia psico-fisica
Il lavoro non nobilita l’uomo, non più della povertà , della miseria o della fame. Non più di un sussidio statale da 250 franchi al mese. Il lavoro presuppone, per il dottor Destouches e per lo scrittore Céline, una precondizione: la malattia. È la vita malata ad essere messa al lavoro, tanto che – scrive, in una nota sull’impiego nella fabbrica di Detroit – «non si vede di che malattie potrebbe essere malato un operaio al punto da non poter lavorare alla Ford». I postulanti, gli inetti, i disgraziati, le classi abbiette «sono le più gradite alla direzione dello stabilimento» che producono malattia e malattia richiedono, per mantenere uno status quo inerziale fondato non sulla progressiva decadenza dello spirito, ma dei corpi. Corpi affamati, stremati dalla fatica, incapaci di vita comune, «masse di inerzia psico-fisica», facilmente corrompibili, perché già  fiaccate e corrotte. La malattia e l’avvilimento, la disgrazia e l’inerzia sono per lui condizioni essenziali e costitutive dell’impiego in fabbrica. Non ambisce a questo, né registra il dato, oltre tutte le magnifiche sorti e progressive. La malattia come ultima risorsa umana, in un mondo che si vede inesorabilmente volto alla comune rovina. Senza classe e, forse, senza classi.


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