Carcere, il braccialetto non convince
Questo è quanto ha dichiarato il ministro della Giustizia Paola Severino durante la sua audizione in commissione Giustizia alla Camera nei giorni scorsi. La soluzione, secondo lei, potrebbe essere il braccialetto elettronico. ”Non è mia intenzione rinnovare la convenzione senza una verifica dei costi e dei benefici”, ha dichiarato il ministro, riferendosi al canone annuo di circa 11 milioni di euro che lo Stato paga alla Telecom per 450 kit per il controllo a distanza dei condannati (la convenzione scade a dicembre). ”Dalle primissime proiezioni sembra che se riuscissimo ad applicare il braccialetto a un numero significativo di persone, che altrimenti dovrebbero essere detenute in carcere, allora ci sarebbe una convenienza economica”.
Sull’argomento PeaceReporter ha intervistato il sociologo Luigi Manconi, presidente di A Buon Diritto, associazione da lui fondata nel 2001, che si occupa del mondo del carcere.
Cosa ne pensa del braccialetto elettronico?
Si sostiene che in alcuni paesi stranieri abbia dato qualche risultato positivo, ma resto comunque estremamente scettico. Il costo di un braccialetto sembra essere assai elevato, la sua manutenzione assai delicata, per questo l’utilizzo non è diffuso come si possa credere. Là dove è utilizzato come negli Stati Uniti, non avviene su scala così ampia come si è detto in questi giorni. Non lo definisco uno strumento degradante, ma mortificante si. Se questo è vero, il ricorso al braccialetto elettronico si può giustificare solo in casi di estrema necessità , quindi non come misura generalizzata, e solo se si rivela l’unico strumento per raggiungere il fine perseguito. Solo che è proprio qui che emerge la contraddizione: qual’è il fine perseguito? Se fosse quello di impedire o limitare l’evasione dalla detenzione domiciliare (dopo la sentenza) o dagli arresti domiciliari (prima della sentenza) va tenuto presente che si tratta di un numero di casi irrilevanti da un punto di vista statistico. Tanto quanto è irrilevante la percentuale dei mancati ritorni dai benefici, come i permessi premio. Tentando sempre, disperatamente a volte, di tenere insieme concezione teorica e applicazione pragmatica delle idee, posso prendere in considerazione uno strumento che ritengo pericoloso per la dignità della persona, ma solo quando se ne dimostri l’assoluta necessità . Se però teniamo presente che le persone agli arresti domiciliari che commettono reati o che non ritornano dai permessi sono meno del 2 percento del totale, mi chiedo se valga la pena di compromettere la tutela della dignità delle persone e di affrontare una spesa enorme. Se, invece, venisse detto che a fronte di 68mila persone in carcere se ne mandano alla detenzione domiciliare la metà , con il braccialetto elettronico, prenderei in considerazione l’ipotesi. Perché coloro che stanno in cella 23 ore su 24 preferirebbero certamente stare a casa con il braccialetto. Differente parlare di braccialetto solo per coloro che potrebbero scontare a casa gli ultimi dodici mesi della pena.
Il problema è drammatico. Quali sono i numeri dell’emergenza carcere?
Abbiamo una presenza nelle carceri, nell’intero sistema penitenziario italiano, attorno alle 68mila persone. Questo rispetto a una capienza regolamentare di 43mila posti previsti. Di questa seconda cifra, inoltre, si fa un indecoroso stiracchiamento, del tutto immotivato, se la si confronta ai dati reali dell’edilizia carceraria, perché quando si dice che la capienza regolamentare è superiore ai 43mila posti si parla di celle dove si è passati da un letto magari a un letto a castello che arriva fino al terzo piano. E’ evidente che se noi violiamo tutti i più elementari diritti di sopravvivenza degli esseri umani, la capienza regolamentare può essere espansa artificialmente.
Il risultato è comunque semplice: abbiamo 43mila posti regolamentari, occupati da 68mila persone. Questi sono i numeri, che non possono essere contestati.
Il sovraffollamento emerge come l’aspetto più grave?
Il sovraffollamento non è una categoria che funziona allo stesso modo per il sistema penitenziario italiano e per le spiagge dell’Adriatico in estate. Quest’ultimo comporta una libera scelta e prevede un termine. Sovraffollamento, in carcere, significa non solo una promiscuità di corpi che si affollano, si addensano, si ostacolano reciprocamente. In carcere, sovraffollamento vuole dire che lo standard dei servizi offerti da quella struttura, pensata per 43mila persone, diventano nel tempo destinati a un numero di persone tale da determinarne la caduta rovinosa in termini di qualità . L’assistenza sanitaria, la scuola, le attività di socializzazione, di formazione e di ricreazione, fino agli incontri con i familiari diventano un bene scarso. Una risorsa che perde qualità e che peggiora sensibilmente e in maniera irreparabile. Diventa impossibile parlare di qualità della vita all’interno del carcere. C’è, come diceva Hannah Arendt, la nuda vita. Resta la mera sopravvivenza, corpi reclusi, che continuano a stare reclusi, nutrendosi malamente, sopravvivendo a stento a malattie e fatiche, alla miseria crescente e alla mancanza di igiene. Questo è il sovraffollamento e non lo si risolve, come ha pensato il governo Berlusconi, annunciando la creazione di 2mila posti letto in più, perché in tre anni non siamo riusciti a sapere con certezza quanti ne siano stati occupati e quanti sono stati solo ricavati da strutture precedenti, magari non utilizzabili per carenza di personale. Il governo Berlusconi, dopo aver dichiarato l’emergenza carceri, ha annunciato un piano carcere per ben tredici volte. L’unico risultato raggiunto dal precedente esecutivo, è stato quello di prevedere l’apertura del carcere di Gela, progetto che risale al 1957. Questo la dice lunga rispetto a cosa significhi affidare la soluzione del sovraffollamento alla costruzione di nuove carceri.
Il sovraffollamento è l’unico problema?
Nell’universo carcere hanno trovato la morte, nell’arco di dieci anni, 1900 persone. Di queste, una percentuale rilevantissima ha trovato la morte suicidandosi. Questi sono i numeri del carcere, che possiamo esemplificare anche in altri modi. Una carenza assoluta di personale, non solo di polizia penitenziaria, ma educatori, operatori sociali, psicologi. In molte carceri italiane, il tempo che lo psicologo può destinare al detenuto – in relazione al proprio orario di lavoro retribuito- è di circa un minuto al mese. Questi sono i dati. In questa spaventosa situazione, dove i corsi scolastici si riducono, dove la miseria crescente priva alcuni istituti anche della carta igienica, acquistata in proprio dai detenuti, dove l’assistenza sanitaria peggiora a vista d’occhio, si deteriora la condizione di vita anche degli agenti di polizia penitenziaria. E’ cresciuto in maniera rilevante, tra questi, il numero dei suicidi.
Qual è la soluzione?
E’ vero che il carcere ha bisogno di riforme strutturali, come hanno sempre detto tutti quelli che studiano per davvero il mondo del carcere, compreso il presidente della repubblica Giorgio Napolitano a luglio di quest’anno. Per me gli interventi sono due: ridurre il numero dei comportamenti e degli atti che sono definiti reato e diminuire il numero dei reati che comportano come sanzione la detenzione in cella. Depenalizzazione e decarcerizzazione. Queste sono le due sole vie capaci di riformare il mondo del carcere sul lungo periodo. Per fare tutto questo, però, è prima necessario conquistare un minimo di normalità . Che si ottiene, oggi, solo con l’amnistia e l’indulto. La legge 241/2006 sull’indulto, diffamata e vilipesa, ha dato risultati credibili producendo una riduzione – seppur temporanea – del sovraffollamento e una recidiva dei beneficiari che si attestò sul 33,92 percento, rispetto a quella ordinaria del 68 percento.
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