Birmania, il risveglio dei demoni dell’oppio

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PECHINO — Si ricomincia da capo, da una storia mai chiusa. La Birmania tenta di convincere il mondo — con qualche successo — che si sta normalizzando, ed ecco che tra i tetti dorati della capitale Naypyidaw e le giungle torna a proiettarsi l’ombra dell’oppio, di traffici che hanno alimentato patrimoni ed epopee, del legame mortifero tra le periferie dell’Occidente e colline di un’Asia remota. Un rapporto sul Sudest asiatico dell’agenzia Onu sulle droghe e il crimine rivela che nel Paese la coltivazione del papavero da oppio aumenta (43.600 ettari in Birmania, più 14% nell’intera regione) e sale anche la produzione di droga finita (più 5%, per un totale di 670 tonnellate). Soprattutto, i prezzi, in ascesa dal 2002, esplodono: se in Birmania nel 2010 un chilo di oppio valeva 305 dollari, quest’anno siamo a 450, più 48%. 
Si torna all’antico. E appaiono insieme i demoni della Birmania: il potere centrale, le minoranze etniche ribelli lungo i confini, la droga. Adesso che il nuovo governo civile annuncia di voler raggiungere una «pace duratura» con le milizie, suonano attuali le parole che uno dei maggiori conoscitori dell’area, Bertil Lintner, scrisse negli anni Novanta: «Nessuna politica antidroga in Birmania ha alcuna possibilità  di successo se non è legata a una reale soluzione politica alla guerra civile e a un significativo processo democratico».
Il narcotraffico è impastato con la storia della Birmania quasi come le Guerre dell’oppio influenzano ancora i rapporti fra la Cina e l’Occidente. Lo scenario, qui, è la geografia di un Paese con troppi confini e decine di popoli. Aveva provato Aung San, padre della patria e di Suu Kyi, a immaginare un Paese composto di autonomie, ma fu ucciso. Da allora molti dei gruppi irredentisti hanno finanziato la loro lotta con l’oppio. Alle tribù che coltivavano il papavero, dopo il 1949 si aggiunsero i soldati del Kuomintang sconfitti da Mao Zedong: parte dei nazionalisti cinesi, infatti, non seguì Chiang Kai-shek a Taiwan e si riversò in Birmania e Thailandia, gestendo i traffici, alleandosi con certi leader locali e combattendone altri, col sostegno di un’America che tollerava l’eroina in nome della guerra al comunismo.
Per decenni il Triangolo d’oro ha segnato il cuore di tenebra di un’Asia da romanzo e Hollywood, ad esempio nella sequenza della spedizione asiatica di American Gangster di Ridley Scott, è stata forse meno fantasiosa della realtà . Piccoli narco-Stati autoproclamati, raffinerie, signori della guerra sopravvissuti a mezzo secolo di storia, fossili ideologici come il Partito comunista birmano. E battaglie: una fra tutte, quella del luglio 1967 tra il Kuomintang e gli uomini del famigerato Khun Sa lungo il Mekong, con l’esercito reale del Laos terzo incomodo. La portata globale di quello che accadeva nei laboratori di Homà¶ng o dalle parti di Thachilek si manifestò infine con l’accusa formale da parte di una corte federale di Brooklyn, New York, alla fine del 1989, proprio contro Khun Sa.
Alla fine degli anni Novanta capitava ancora di scorgere anche al confine con la Cina muli carichi d’oppio, guidati da personaggi «in sandali di gomma» e certo «non conversatori entusiasti», come si legge in The River’s Tale, dell’americano Ed Gargan.
È poi venuta l’era delle metanfetamine, e le basi per la produzione di «China White» e altri tipi d’eroina si sono riconvertite. Anche le rotte del narcotraffico sono mutate, l’Onu parla del business nel Sudest Asiatico in mano a gang africane e iraniane (136 milioni le pillole sequestrate e 442 centri di produzione scoperti nel 2010). I pericoli intorno al Triangolo d’oro non sono spariti. Cina, Birmania, Thailandia e Laos hanno appena cominciato a pattugliare insieme il Mekong dopo la strage di 13 marinai cinesi. Da queste parti i prezzi da pagare sono sempre alti.


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