Bagdad, il sangue dopo gli americani frana la “democrazia” portata dai tank

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Forse spinto dal sollievo di mettere fine a un conflitto da lui non voluto, il presidente ricevendo a Washington, nei giorni scorsi, il primo ministro Nuri Kamal el-Maliki, è stato incauto. Ha detto che i soldati degli Stati Uniti si sono lasciati alle spalle un paese «sovrano, fiducioso in se stesso e democratico». L’eco delle sue parole non si era ancora spento quando il rissoso mosaico etnico che generali e diplomatici americani pensavano di avere placato, consentendo l’avvento di una convivenza civile tra sunniti, sciiti e curdi, ha cominciato a sgretolarsi, rischiando di andare in frantumi. Di crollare come un castello di sabbia. Come se a puntellare la democrazia importata dagli Stati Uniti fossero i carri armati, la cui funzione era quella di essere le impalcature di una effimera e insanguinata scena teatrale. 
Nessuno ha rivendicato per ora la strage di Bagdad, ma essa è avvenuta appena sono uscite dalla ribalta le truppe straniere, e subito si è acceso un aspro scontro politico all’interno della coalizione in cui convivono da un anno partiti sunniti, sciiti e curdi. Una coalizione di governo fragile, zoppa. Ci sono voluti otto mesi per formarla, dopo le elezioni, e ancora oggi i dicasteri incaricati nei vari settori chiave della sicurezza sono vacanti, oppure occupati da ministri provvisori non legittimati dal Parlamento. La reciproca diffidenza tra gli sciiti dominanti e i sunniti frustrati ed emarginati ha impedito finora un accordo. La forte, ombrosa personalità  del primo ministro, accusato di volere imporre una dittatura, non ha contribuito a creare un clima di fiducia. 
Il riaffiorare in modo plateale delle rivalità  nella società  politica ha allargato il terreno d’azione del terrorismo, la cui attività  non è in verità  mai cessata del tutto. Un terrorismo dalle numerose teste, da alcuni attribuito all’edizione irachena di Al Qaeda, la quale trova sulle rive del Tigri tormentate dall’odio tra comunità , odio più etnico che religioso, un ampio spazio di manovra. Dall’Iran all’Arabia Saudita, passando per la Siria in preda alla guerra civile, non c’è Paese che conti in Medio Oriente senza un’antenna che può essere terroristica in Iraq. E si tratta di Paesi spesso in aperta tenzone. Molti iracheni pensano, con fondate ragioni, che a fomentare il terrorismo siano anche esponenti degli stessi partiti di governo, o milizie a loro affiliate. Nel quartiere di Karrada, a Bagdad, una donna ferita ha rifiutato di salire su un’ambulanza, dicendo «che non voleva essere aiutata da un governo assassino». Il primo ministro, uno sciita, ha del resto accusato un vice presidente sunnita di organizzare attentati, e ha spiccato contro di lui un mandato d’arresto, appena rientrato da Washington, e prima ancora della strage di ieri. 
Non sono in pochi a pensare che Nuri Kamal el-Maliki rifletta l’immagine dell’Iraq di oggi. Il personaggio non ha un carisma luminoso. Ha vissuto a lungo nella clandestinità , e il suo partito, Dawa, in cui si riconosce larga parte della comunità  sciita, maggioritaria nel Paese, ha praticato in un remoto passato il terrorismo. Negli anni in cui si opponeva al regime dominato dalla minoranza sunnita, in particolare nei lunghi anni della dittatura di Saddam Hussein, ha operato a lungo nell’ombra, in varie regioni del Medio Oriente. Senz’altro a Beirut. E pare anche nel Kuwait dove avrebbe compiuto l’attentato del 1983 contro l’ambasciata degli Stati Uniti. Il caso di Nuri Kamal el-Maliki non è certo unico in Medio Oriente. Molti militanti politici costretti alla clandestinità  sono stati coinvolti in azioni violente. 
Nel primo ministro iracheno sarebbe ancora visibile l’impronta di quell’attività  svolta in gioventù. Si fida soltanto dei suoi stretti collaboratori, ha comportamenti bruschi, lo sguardo sospettoso, ed è poco incline al compromesso con gli avversari. Stenta ad affidare ad altri i servizi di sicurezza. Ha trascorso parecchi anni d’esilio nel vicino Iran. Non è il solo. Altri dirigenti sciiti perseguitati hanno trovato rifugio a Teheran. Saddam Hussein basava il suo potere sui correligionari sunniti, dominanti nelle Forze armate e nel partito Baath; mentre gli sciiti erano considerati spesso cittadini di seconda categoria. Oggi gli avversari di el-Maliki dicono che è un uomo di Teheran. Ma l’accusa appare eccessiva, perché nonostante le affinità  religiose tra sciiti iracheni e iraniani, il rispettivo nazionalismo ridimensiona la complicità . Nella lunga guerra degli anni Ottanta tra l’Iran di Khomeini e l’Iraq di Saddam Hussein gli sciiti iracheni hanno servito fedelmente nell’esercito nazionale. E comunque gli americani, malgrado la vecchia attività  terroristica di Dawa e la lunga permanenza a Teheran, hanno finito col fidarsi di el-Maliki e hanno puntato su di lui. 
Nei giorni scorsi, di ritorno da Washington, non ha perso tempo. Ha aperto un confronto con gli avversari sunniti, che pur partecipano alla coalizione di governo. Ha lanciato un mandato d’arresto contro il vice presidente Tariq el-Hashimi, un sunnita, accusandolo di avere organizzato attentati contro personalità  sciite. Tariq el-Hashimi è fuggito nel Kurdistan, la regione settentrionale semi autonoma, sfuggendo ai poliziotti sguinzagliati dal primo ministro. E da Erbil ha accusato il governo di perseguitarlo, e di avere costretto alcune sue guardie del corpo a raccontare alla televisione sei attentati che avrebbero compiuto per suo conto. Per lui tutte fandonie. 
El-Maliki ha ingiunto senza successo alla polizia curda di eseguire il mandato d’arresto, e in una conferenza stampa ha minacciato di lasciare la guida del governo di coalizione e di formarne uno senza la partecipazione di Iraqiyya, l’alleanza laica dominata dai sunniti, se i suoi ministri e deputati continuano a disertare in segno di protesta le riunioni del governo e il Parlamento. Dopo queste dichiarazioni alla televisione, le accuse rivolte a el-Maliki di preparare una dittatura si sono moltiplicate. L’ambasciatore James F. Jeefrey, appena partito in vacanza negli Stati Uniti, è ritornato in gran fretta a Bagdad. Dove ha trovato il generale David H. Petraus, un tempo comandante delle truppe in Iraq e adesso capo della Cia, pure lui accorso d’urgenza. Entrambi sperano di salvare la democrazia irachena portata dai carri armati e incautamente consacrata da Barack Obama. Nella Zona Verde, l’area bunkerizzata di Bagdad dove sorge la più grande ambasciata americana, si deve misurare in queste ore, più che mai, l’ampiezza del fallimento. 
Certo, Obama aveva fretta. Come biasimarlo? Voleva uscire al più presto dall’Iraq, la trappola micidiale, costosa e disonorante in cui il suo predecessore George W. Bush ha trascinato gli Stati Uniti, nove anni fa, con falsi e irresponsabili pretesti. Obama aveva ragione. Difficile dargli torto. E così ha rispettato le scadenze, guardandosi bene dal prolungarle con faticosi, sofferti negoziati, per dar tempo all’instabile coalizione al governo a Bagdad di rafforzarsi, come consigliavano i suoi avversari. Affrontare le elezioni d’autunno con un impegno militare in meno, avendo chiuso una guerra per la durata seconda soltanto a quella del Vietnam, poteva favorire il presidente sulla soglia di un altro incerto mandato. 
Ma poche ore dopo la partenza dell’ultimo soldato sulle sponde del Tigri c’è stata un’altra dimostrazione di quanto la spedizione irachena sia stata un disastro. Se la fine di Saddam Hussein era augurabile, e salutare, bisognava coinvolgere gli iracheni nella lotta di liberazione. Non invadere il Paese sulla base di menzogne come quella delle armi di distruzione di massa. E poi restare degli occupanti che non potevano neppure bere una Coca Cola in pubblico con un cittadino o una cittadina irachena, senza rischiare la vita. La pretesa di importare con i carri armati in Mesopotamia la democrazia di Jefferson era assurda. Gli irriducibili sostenitori del conflitto rimprovereranno a Obama di essersene andato troppo in fretta. Come se nove anni non fossero bastati


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