Altra botta degli studenti a Pià±era: via Bulnes, ministro dell’istruzione
Fine anno col botto in Cile. Nonostante scuole e università siano chiuse per le vacanze estive, il movimento degli studenti che ha infernizzato il primo anno di governo del presidente destrorso Sebastià¡n Pià±era e ha fatto fiorire «la primavera cilena» a oltre vent’anni dall’uscita di Pinochet dalla Moneda, ha mietuto un altra vittima o, se si vuole, messo a segno un altro colpo. Il ministro dell’educazione, il contestatissimo Felipe Bulnes, si è dimesso, naturalmente «per ragioni personali» ad appena sei mesi – ma di fuoco – dalla sua entrata in carica al posto di un’altra vittima della contestazione studentesca, Joaquàn Lavàn, uno dei pezzi grossi della destra (post)pinochettista.
Il rimpasto, di cui parlava ma che veniva negato dal governo, c’è stato e non ha riguardato solo il bollente ministero dell’educazione ma anche quello dell’agricoltura, il cui titolare José Antonio Galilea si è dimesso anche lui «per ragioni personali». Al posto di Bulnes è stato piazzato un economista, Harald Beyer, indicato come specialista di materia di istruzione ma privo di qualsiasi esperienza politico-governativa, di cui però si sa già che pur essendo favorevole alla «riforma» del sistema educativo (un po’ di soldi in bilancio senza toccare la struttura privatista e classista), è contrario alle due principali domande del movimento studentesco: la gratuità dell’istruzione per tutti, la cancellazione dell’obiettivo del profitto dagli statuti delle università .
La rinuncia di Bulnes e il rimpasto, il quarto da quanto Pià±era si è insediato nel palazzo della Moneda nel marzo 2010, appaiono il tentativo di fermare la caduta a precipizio nei sondaggi del miliardario presidente post-pinochettista (gli ultimi rilevamenti lo danno al 23%), dopo l’effimero boom di popolarità legato allo spettacolare salvataggio dei 33 mineros intrappolati in fondo a una miniera di rame nell’ottobrer 2010.
Camila Vallejo la giovane pasionaria del movimento studentesco, ha parlato di «disperazione» del governo rispetto al nodo spinoso del sistema educativo e sul movimento di protesta che riprenderà a marzo e userà «nuove tattiche» stando alle dichiarazioni del nuovo leader, Gabriel Boric, che ha battuto Camila, considerata troppo «moderata» e legata al Pc cileno, alle ultime elezioni studentesche.
L’anno che si conclude è stato molto tribolato, e anche violento. Ma nonostante l’asprezza dello scontro e il gioco sporco, non solo la protesta non si è sgonfiata ma è andata crescendo con il tempo e si è allargata coinvolgendo altri settori sociali, a cominciare dai professori, trasformandosi nel maggior movimento di protesta dal ritorno della democrazia nel 1990, capace di mostrare come la lotta per lo smantelamento del pinochettismo dall’educazione sia in un realtà solo la punta dell’iceberg di un interesse sociale generale. In agosto la Cut ha indetto uno sciopero di due giorni – fatto inusitato anche nel Cile democratico – a cui hanno aderito i sindacati del rame e i funzionari pubblici.
Il Cile, stucchevolmente indicato come «il paese modello» per i suoi risultati macro-economici (decenni di crescita sostenuta del pil), nasconde delle realtà assai meno luccicanti. Secondo l’Ocse (primo paese dell’America latina a entrarvi) il sistema educativo cileno, non a caso disegnato da Pinochet e mai più ritoccato neppure nei 20 anni di governo del centro-sinistra, è uno dei più «privatizzati» del mondo. Il 40% delle spese per l’istruzione viene non dallo Stato ma dalle famiglie attraverso le imposte, dallo Stato viene solo il 16% delle finanze per l’educazione superiore, contro la media Ocse di quasi il 70%; tre quarti delle università cilene (alcune annoverate fra le migliori del mondo) sono private. Anche nei licei la festa dei privati è totale: meno della metà dei liceali cileni va a scuole pubbliche, il resto a quelle private (7%) o a quelle sussididiate (48%) in cui i costi sono divisi fra lo stato e le famiglie. Il Cile è un paese ricco ma pieno di poveri, uno dei più squilibrati del mondo. Uno studio di qualche mese mostrava come il 20% dei cileni «ricchi» fruisca di introiti paragonabili a quelli di Usa o Norvegia, ma, in contropartita, «il 60% dei cileni vive con introiti medi peggiori di quelli dell’Angola».
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