Alle origini del vizio corporativo

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È la negazione della politica. Un po’ di realismo, dopo un sano bagno storicista, non guasterebbe. 
Per capire le difficoltà  che la politica incontra sia nella progettazione, sia nell’esecuzione delle «riforme di struttura», occorre risalire alle radici storiche, culturali, sociali, istituzionali del Paese, cioè al suo passato; scoprire, e tirar fuori, i cadaveri che la retorica patriottarda nasconde negli armadi della storia. Scrive Sabino Cassese, una fonte non sospetta di nostalgie autoritarie e neppure di cedimenti al liberalismo classico: «Mentre gli anni fino al 1930 appartengono alle vicende storiche dell’Italia unita (nel senso che le istituzioni pubbliche dell’epoca non si differenziano da quelle liberal-autoritarie dell’Italia postunitaria se non in termini di quantità ), quelli successivi presentano caratteri diversi: dallo Stato “paterno” si passa allo Stato “Provvidenza”; si afferma la pianificazione pubblica; domina, sullo sfondo delle grandi crisi economiche, la figura dello Stato “sociale”. La stessa rottura costituita dalla liberazione e dalla Costituzione del 1948 diviene meno importante in questa prospettiva: si pensi alla “continuità ” tra alcune affermazioni del codice del 1942 (e della stessa Carta del Lavoro del 1927) e talune disposizioni della Costituzione del 1948 (ad esempio, quelle in tema di proprietà  e di iniziativa economica); si pensi alla proposta fatta da un sindacalista socialista, nel dopoguerra, di mantenere in vita le corporazioni, democratizzandole» (Lo Stato fascista, il Mulino). 
Ci sono state: 1) una rivoluzione sociale, sfociata in quella (politica) fascista, le cui tracce si trovano (ancora) nella società  e nelle istituzioni repubblicane; 2) la crisi del ’29 con l’innamoramento per soluzioni stataliste e dirigiste che hanno inciso sulla nascita, e gli sviluppi, della Repubblica.
L’Inghilterra moderna e liberale si è chiesta quale lezione trarre dalla «gloriosa rivoluzione» del 1688 che ne è stata l’atto fondativo. Secondo La storia d’Inghilterra di Thomas Babington Macaulay, che ne è la versione ufficiale: 1) non è stata una rivoluzione, perché incruenta, consensuale, aristocratica, parlamentare; 2) è stata una rivolta protestante, contro il cattolicesimo di Giacomo II, capeggiata da Guglielmo III e Mary II; 3) ha rivelato il carattere eccezionale del popolo inglese; 4) non è stata il riflesso di un disagio sociale perché il Paese non era cambiato granché sotto Giacomo. Ma — per la storiografia contemporanea — la narrazione è sbagliata. Sia Giacomo, sia Guglielmo erano fautori dello Stato assoluto, centralista e interventista; l’uno, Giacomo, sul modello di quello francese di Luigi XIV, l’altro, Guglielmo, su quello della Repubblica olandese e nel solco della tradizione britannica. Non è vero che fu incruenta. Uomini e donne, da Londra a Newcastle, da Plymouth a Norwich, sperimentarono violenze di ogni genere. Fu la prima rivoluzione moderna perché produsse un cambiamento socio-strutturale dello Stato, che accelerò lo sviluppo economico e disegnò i contorni di una nuova società , rompendo col passato. Insomma, fu una rivoluzione sociale con implicazioni politiche e una rivoluzione politica con implicazioni sociali (Steve Pincus: 1688 – The first modern Revolution, Yale University Press). 
Ora, tornando a noi, è pur vero che la storia non è maestra di vita, che le cronache giornalistiche si limitano a raccontare le vicende del Palazzo e trascurano la riflessione storiografica, sociologica e politologica, ma è un fatto che, se si perde di vista la società  e si guarda solo alla politica, il pericolo è di cadere o nell’ossequioso omaggio dell’esistente, o nel ribellismo populista. Prendersela col Parlamento, perché corregge le decisioni del «governo degli economisti» (che sanno), non ha alcun senso. Deputati e senatori fanno il loro mestiere sia quando mitigano le misure fiscali del governo tecnico, sia quando resistono ai suoi tentativi di forzare le resistenze corporative, per la semplice ragione che dei cittadini-contribuenti, e delle corporazioni nelle quali i cittadini-contribuenti sono inquadrati, sono la rappresentanza politica. Non si tratta di rassegnarsi alle «dure ragioni dello status quo» e di rinunciare alle riforme; ma neppure, ignorando la società  che è a fondamento dei comportamenti politici in una democrazia rappresentativa, di criminalizzare il Parlamento.


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