Agguati neocoloniali sul corpo delle «altre»

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L’autrice, intervenendo sulle modificazioni genitali femminili, presenta una lucida critica di quel «dominio dell’umanitario» che costituisce uno dei laboratori delle politiche del contemporaneo Cos’hanno in comune un lifting della clitoride e una cliterodectomia? E ancora: come mai l’Africa è sempre sospesa – nell’immaginario occidentale – tra gli estetismi senili di Leni Riefenstahl e le pubblicità  progresso dell’Unicef? Sono domande irritanti come queste quelle che solleva l’ultimo volume di Michela Fusaschi (Quando il corpo è delle Altre. Retoriche della pietà  e umanitarismo spettacolo, Bollati Boringhieri, pp. 157, euro 15,00). Antropologa e docente a Roma Tre, da anni si occupa di mutilazioni genitali femminili (Mgf). O meglio sarebbe dire: di modificazioni genitali femminili. In un simile slittamento semantico è già  rivelato molto dell’impianto teorico e politico che sostiene l’etnografia di Fusaschi. Sostenitrice di una antropologia pubblica, dedica il suo volume a quella che un’altra antropologa ha chiamato l’«astuzia del riconoscimento» che presiede alle campagne occidentali per la messa al bando delle Mgf. Lo fa analizzando le retoriche di cui sono intessute, tutte orientate a una politica della pietà  che, istituendo l’Altra – africana, perlopiù – a vittima, nel riconoscerla, la disconosce silenziandola. Campagne e progetti – globali, europei e italiani – sono sottoposti a uno scrutinio severo, che lascia emergere l’asimmetria discorsiva che decide della reazione politica e morale che accompagna l’apprensione di fenomeni forse non così distanti come le Mgf e la chirurgia intima estetica. Vittima o libera? Da un lato, domina il linguaggio dei diritti umani; l’unico capace di redimere i barbari – e salvare le barbare – dai costumi cui un’atavica «cultura» da sempre e per sempre li obbliga. Dall’altro, impera la volontà  libera e sovrana dei soggetti, la mistica della scelta e dell’agency liberale (che pretende, ovviamente, di riscrivere anche la grammatica di affetti e desideri). Vittime, da un lato; protagoniste, dall’altro. Sia chiaro: il sillogismo che vuole trasformare un critico di un certo modo di affrontare un problema in un apologeta dello stesso è tra i più fallaci in assoluto e non si applica quindi a Fusaschi: quello che è qui in gioco è un diverso modo di vedere. Relativismo? Confusione? No, un esercizio teorico (e immaginativo e pratico) necessario, che gli strumenti dell’antropologia aiutano a compiere: l’etnocentrismo critico demartiniano insegna che per familiarizzare con l’estraneo occorre defamiliarizzarsi con il noto. Il genere ritualizzato Fusaschi, che questo metodo lo pratica come un partito preso, può così istruire – a partire da un’etnografia condotta sempre qui e lì – una vera e propria critica di quel dominio dell’umanitario che – con i suoi slanci genuini e i suoi pericolosi scivolamenti neocoloniali – costituisce uno dei laboratori delle politiche del contemporaneo e, in questo caso, della produzione di corpi femminili altri. Il suo fieldwork – o terrain, a seconda delle tradizioni – è il Rwanda. Il cuore di quell’Africa nera inderogabilmente inscritta in un immaginario conradiano. Ma è proprio in questo cuore di tenebra che Fusaschi rinviene una pratica – il gukuna – che fatica a essere inscritta nella lista delle Mgf. Si tratta di una tecnica di allungamento delle piccole labbra praticato da donne, su donne e fra donne (ciò non toglie che, in ultima istanza, esso si inscriva in un ordine simbolico patriarcale), che costituisce un vero e proprio rituale di istituzione del genere. Perché, tuttavia, il nostro senso morale è più a disagio di fronte al gukuna che a una liposcultura vulvare? È con interrogativi come questi che Fusaschi prova a raschiare le incrostazioni pietistiche e pietose, paternalistiche e maternalistiche che, ogni qualvolta si parli d’Africa (e di africane), finiscono per occupare la scena. Riuscendo così a installare la vicenda delle Mgf e quella della sua ricezione occidentale all’interno della cornice di quella che Didier Fassin chiama la «ragione umanitaria». La circolazione di dispositivi di controllo e di affetti retoricamente e politicamente «colorati» si lascia illuminare attraverso il prisma di quella razionalità  che, facendosi concreta pratica di governo, attesta di una crescente implicazione dei sentimenti morali nel calcolo governamentale. Non solo biopolitica, si direbbe con uno slogan. È infatti facile mostrare quanto complessa sia la circolazione degli affetti e del senso morale negli ingranaggi di governo e quanto situazioni politicamente urgenti assumano la fisionomia di configurazioni morali in cui il governo di sé e degli altri è continuamente sospeso a valutazioni di natura etica. Per lo più si tratta di situazioni moralmente indecidibili, in cui l’economia di torti e ragioni è difficile da stimare e neppure si lascia ascrivere a una delle parti in gioco. Piuttosto: si tratta di situazioni complesse, in cui il senso morale è costantemente preso nella tenaglia di compassione e repressione. Una forma di governo che mescola la cura all’arbitrio e che ritaglia l’umanità  secondo categorie morali che scompaginano e complicano quelle «politiche», con l’effetto di produrre nuove figure della soggettività  e creare ulteriori soglie di valutazione dell’umano. Tra decenza e socialità  L’urto incomponibile tra la moralità  neoliberale – che riscrive e inscrive le proprie intuizioni circa sessualità  e decenza nel discorso giuridico dei diritti e dei titoli – e la socialità  intrattabile degli Altri e delle Altre detta il ritmo delle impasse che costellano la governamentalità  neoliberale. La socialità  liberale appare così governata dai due discorsi complementari che Elizabeth Povinelli ha chiamato del «soggetto autologico» e della «società  genealogica». Non si tratta di hegeliane figure dello spirito, ma di reali, concrete e materiali modalità  del governo degli altri e del governo di sé. Il neoliberismo difende, da un lato, il soggetto autologico, e la sua fantasia di autonomia, minacciata dalla pesante ombra della comunità ; e, dall’altro, vagheggia la società  genealogica, unico vero soggetto titolato a fruire dei benefici della socialità . Un tessuto comunitario irrecuperabile e agitato nostalgicamente e un’autonomia individuale che è una pura chimera teorica, finiscono per rendere la questione della soggettività  indecidibile. La produzione neoliberale del corpo diventa perciò un banco di prova decisivo per la nostra immaginazione politica e richiede – anche a prezzo della sperimentazione di un certo disagio morale – la messa in mora di molto moralismo teorico. Altrimenti si corre il rischio che la libertà  – non a caso elemento definitorio perfino della forma di governamentalità  in cui siamo immersi – finisca per diventare l’ennesimo significante che fluttua in un circuito discorsivo puramente citazionale, avendo perduto ogni possibile referente e uso politico.


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