Addio Havel, eroe post-comunista della Rivoluzione di velluto

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MOSCA – Resta un sorriso che non si dimentica. Restano un paio di cuoricini schizzati distrattamente sulla carta intestata presidenziale. E resta un esempio che nessun leader politico, fino ad ora, ha mai saputo seguire. Vaclav Havel, l’uomo della Rivoluzione di velluto, l’intellettuale che si ritrovò nella stanza del potere, è morto nella sua Praga, ieri mattina, a 75 anni. Da dieci si trascinava un cancro terribile e doloroso che portava con la consueta leggerezza, perfino con un po’ vanità . Le cure gli servivano per giustificare a sé stesso le tisane aromatiche che qualche medico speranzoso gli imponeva a pranzo. I momenti in cui il male riprendeva il sopravvento liberavano invece goduriosamente gli spazi per una bella birra gelata, un bianchetto della Moravia, un paio di sigarette. 
L’amore per «le piccole cose che danno piacere» è sempre stata una costante in tutte le innumerevoli vite di Vaclav Havel: prima giovane rampollo di una famiglia importante, poi vittima della discriminazione e degli espropri comunisti. E di seguito: studente di drammaturgia per corrispondenza, operaio in una fabbrica di birra, scrittore, dissidente, attore, detenuto politico, presidente della Repubblica, regista cinematografico. E quando gli ripetevi l’elenco ti rimproverava con civetteria: «Ne avete dimenticate due o tre. Ma la vita è una sola. Quello che conta è trasformare le esperienze in cultura. E provare a usarla per il bene comune».
Retorica? Banale buonismo? I “politici di mestiere” che hanno cercato di metterlo ai margini della Storia hanno usato spesso questi termini nel tentativo di demolire una popolarità  travolgente nella Repubblica Ceca e nel resto del mondo. Havel ascoltava quelle lezioncine sul “pragmatismo”, “i doveri della politica”, “il senso dello Stato”. E ne rideva. Anche nell’ultimo incontro con Repubblica, l’anno scorso in una antica villa della Moravia trasformata nel set, un po’ artigianale e caciarone, della sua opera prima cinematografica, “Partenze”, tratto da una pièce teatrale scritta dopo la pensione. Seduto con molta ironia su una poltroncina dell’Ikea, modello regista, ammetteva che proprio i “politici di mestiere”, di qualsiasi provenienza e ideologia, erano i suoi veri avversari: «Ho sempre detestato e combattuto quei loro discorsi pomposi e vuoti. La politica del bla bla bla. Quel pensiero fisso al presente, rivolto al massimo fino alle prossime elezioni. Mai un gesto, una decisione che sia proiettata al futuro, a quello che potremmo essere tra cinquanta, cento anni». 
Ed era impossibile non ricordare il momento decisivo dell’intellettuale dissidente finito ai vertici del potere. A quella notte dell’89 a piazza Venceslao, quando la folla gridava contro il barcollante regime comunista e invocava il suo nome lanciandolo di fatto alla presidenza della Cecoslovacchia prima, e poi a due mandati da capo di Stato ceco dopo la scissione consensuale con Bratislava. «Mi sono sentito come a teatro quando sei l’attor giovane e il protagonista è improvvisamente scomparso. Che dovevo fare? Io non ho mai aspirato a cariche politiche, né ho mai fondato alcuna ideologia. Sulla scena serviva un leader democratico. E dove lo trovavi nella Cecoslovacchia dell’89? Allora l’attor giovane ha fatto il suo dovere: è salito sul palcoscenico e ha dato il meglio di sé». 
E in quel giardino moravo, tra carezze al cane da guardia e qualche tartina di pane nero, c’era tutta la sua arte innata di trasformare qualunque occasione, un’ora d’aria in prigione, o una decisiva riunione di gabinetto, in un rilassato dopocena tra amici. C’erano i vecchi eroi di Charta 77 che firmarono il primo manifesto di intellettuali contro l’ottusità  del regime sovietico. Allegri pensionati della dissidenza che si improvvisavano, direttori della fotografia, attori, scenografi, tra errori clamorosi e risate omeriche. Havel li guardava estasiato: «Abbiamo tutti sofferto tanto. Carcere, lutti, ingiustizie. Forse è questo che ci fa apprezzare la vita, che ci fa avere sempre voglia di nuove sfide, nuovi impegni. Ma non voglio pensare che la sofferenza sia l’unico modo per formare una nuova generazione. Anche i nostri giovani, pigri e un po’ frastornati, di oggi, cresceranno. Io li sto aspettando».


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