Addio a Tremaglia dalla tragedia di Salò al voto agli emigrati

by Editore | 31 Dicembre 2011 8:21

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ROMA – Era il ragazzo di Salò, e tale è rimasto. Un fascista sentimentale, gentiluomo della destra. Mirko Tremaglia aveva 85 anni e per quasi mezzo secolo ha allevato generazioni di italiani al dovere di “non rinnegare”, al ricordo della luce littoria. Dopo Giorgio Almirante, di cui è stato a lungo vice nel Movimento sociale, Tremaglia è stato il volto politico più conosciuto e stimato della destra storica. Se n’è andato nella sua Bergamo un uomo che ha vissuto unicamente per le sue passioni. E sembra tanto al confronto della diversa natura degli interessi che spesso attraversano la vita pubblica contemporanea. 
Di lui non si ricorda altro che bandiere e gagliardetti: l’italianità , la vita dura degli emigranti, la strage di Marcinelle. Tricolore ovunque, e lacrime e lo stemma dei bersaglieri al petto. Per sempre. 
Ha difeso le sue idee anche quando erano idee di un altro mondo, battaglie perse e già  consegnate alla storia. E con lo stesso vigore, con l’ardore di un combattente (e infatti combattè per due anni, anche se dalla parte sbagliata) ha condotto alla vittoria l’obiettivo al quale ha destinato ogni forza, quando si è visto riconoscere dal Parlamento la legge che assegna agli italiani all’estero il diritto di voto. Si dirà  che è una legge venuta male, ed è così. E anche Tremaglia lo sapeva.
A questa legge Berlusconi imputò la sconfitta alle politiche del 2006, e in quei giorni Mirko fu messo in croce, e forse c’era ragione. 
Tremaglia è stato un antiberlusconiano, anche se ha militato nel Popolo della libertà . Un dipietrista convinto, e col furore delle sue battaglie ha tentato in ogni modo di traghettare l’ex magistrato di Mani pulite dalla sua parte. Confidente di Tonino, suo tutore nei primi mesi della sua attività  politica, amico al quale ha tributato – malgrado il Cavaliere (o forse proprio per questo) – lodi sperticate: «Uomo inattaccabile e di moralità  assoluta, uomo prezioso, indispensabile per l’immediato futuro». Non fu così, e il trasferimento del Tonino nazionale sotto l’Ulivo lo fece imbestialire. 
Lontano dalla fauna berlusconiana, ha temuto che Gianfranco Fini, il giovanotto che aveva allevato nei lunghi anni dell’Msi, lo conducesse troppo lontano dalla fiamma tricolore. Aveva detto sì ad Alleanza nazionale, quando nacque. Senza però “rinnegare”. Troppo forte il ricordo e sempre orgoglioso di quelle foto che lo ritraevano in camicia nera, per il Duce e con il Duce. Fino alla morte. Non morì in battaglia, ma finalmente sparò agli americani che liberavano l’Italia. Fu preso dagli alleati e rinchiuso nel campo di concentramento di Coltano, vicino a Pisa. Quando seppe della morte di Mussolini quasi svenne, «fu un dolore fisico grandissimo», e cercò di riabilitarlo con i modi che poteva. 
Fascista nel cuore, e alcune volte nelle parole («io i gay li chiamo culattoni») ma sempre cerimonioso, capace di intrattenere rapporti positivi con i suoi avversari. Tanto che negli ultimi anni, persa la bussola storica del confronto con i comunisti, si vide estraneo all’agone politico. Fu dura per lui accettare la morte di Marzio, il figlio quarantenne anch’egli militante della destra, e il nuovo mondo che si apriva, luccicante e berlusconizzato, lo condusse nelle retrovie. 
Ha scelto di finire la carriera con Futuro e libertà . E Fini, che piange «il grande amico», oggi sarà  a Bergamo, la città  di Tremaglia, per commemorarlo. Anche il capo dello Stato lo ricorda «con stima». E Di Pietro scrive parole emozionate. I suoi pochi e vecchi camerati lo piangono sinceramente e i giovanotti nati col culto di quella stagione lo vegliano in queste ore a turni di due.

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