Addio a Cita, la scimmia più famosa: a fianco di Tarzan è entrata nel mito
Era sopravvissuto per 80 anni alla jungla più feroce che esista, quella di Hollywood, Cheetah lo scimpanzè di Tarzan che per noi italiani era semplicemente Cita. Aveva vissuto più a lungo anche dei suoi partner umani che da tempo se ne erano andati ululando via nell’oblio della ingrata gloria cinematografica. È morto, o morta perché nella immaginazione del pubblico era una femmina per essendo maschio, in una casa di riposo per scimmie in Florida, dove aveva vissuto per mezzo secolo, dopo l’addio alle luci degli studios, conquistando l’Oscar per la sopravvivenza in cattività secondo il Guiness, non potendo aspirare a quello strettamente riservato agli umani nello zoo dello spettacolo.
Non che lui fosse un compagno di lavoro particolarmente amato, almeno nei ricordo di Jane, la compagna femmina (umana) che era stata affiancata al nerboruto campione olimpico Weissmuller vincitore di 5 ori. «Cheetah era un bastardo», disse alla figlia prima di morire nel 1998 Maureen O’Sullivan, l’attrice forse gelosa dell’attenzione che lo scimpanzè riceveva, ricordando come lui si divertisse molto a sparare, non potendo lanciare insulti o pettegolezzi, escrementi sui compagni di lavoro, quando non gradiva una scena. Ma in compenso non costava molto, a parte le solite banane, e dovette vivere, non avendo risparmi né investimenti né lasciti, di carità pubblica nel «Rifugio per Primati Abbandonati» a Palm Harbor, vicino a Tampa.
Non si turbò neppure molto quando qualcuno mise in dubbio che fosse proprio lui l’animale che forniva all’eroe umano, Tarzan Johnny Weissmuller, e alla bellissima Maureen, che i registi dovevano vestire più del partner maschio per non turbare i censori, quegli intermezzi comici nelle avventure del protagonista. Molte altre scimmie erano state utilizzate per quel ruolo, compresa una chiamata David che scimpanzè non era affatto, ma uomo, di cognome Holt, in soffocante costume peloso. Un’idea che si rivelò peregrina quando il povero figurante, tentando acrobazie scimmiesche, finì in ospedale con fratture e lussazioni.
Ancora oggi, al momento della sua morte per “blocco renale”, torna il dubbio che non fosse lui l’animale che debuttò nel 1929 e fino al 1948 accompagnò il Tarzan originale, l’ex bambino poliomielitico portato in America dall’Austria Ungheria nel 1904 quando aveva un anno e curato con sessioni interminabili di nuoto che lo resero campione olimpico da adulto. Ottant’anni sono un’età biblica e inaudita per scimpanzè che non vivono oltre i quaranta, quarantacinque anni in cattività e anche il più fisionomista può far fatica e distinguere una scimmia da un’altra, in fotogrammi di mezzo secolo fa.
Ma convenzionalmente, il mondo del cinema aveva alla fine riconosciuto che quel vecchissimo animale ormai dedito soltanto al “finger painting”, a colorare tele con le dita, fosse proprio Cheetah. O lo fosse diventato nell’immaginazione, secondo la sorte dei celebri attori animali che il pubblico conosce con il nome di scena, ma non sono mai soltanto uno, ma tanti cloni, da Lassie a Rin-tin-tin, dal Commissario Rex all’ultimo eroe di Spielberg, il “Cavallo da Guerra” che galoppa fra le trincee della Marna nel film “War Horse” appena uscito.
Gli animali nello spettacolo, che tutti gli attori umani fingono di amare mentre segretamente detestano perché, come i bambini, nella loro spontaneità rubano la scena e sembrano più sinceri, sono anche più intercambiabili dei loro colleghi a due zampe e a volte, per bravura, anche migliori. Se ne rese conto Ronald Reagan, proprio il futuro presidente, quando recitò accanto a un altro scimpanzè nel capolavoro chiamato “Buona notte per Bonzo” e spediva foto insieme con lo scimmiotto agli ammiratori con l’autografo che diceva: «Con amicizia, Ronnie (Io sono quello con l’orologio)».
Che fosse la “protoscimmia”, l’archetipo originale dell’attore nei film di Tarzan, l’animale morto ieri per blocco renale in Florida, o un clone fra i dodici che hanno recitato con Johnny e Maureen, non ha, in fondo, alcuna importanza. Il suo trapasso era già avvenuto da tempo, con la fine dell’innocenza di un pubblico che adorava l’antropomorfismo alla Disney.
È tramontata ormai la generazione che accettava come prodigiosi effetti speciali un ragazzone muscoloso capace di saltare da una liana (finta) all’altra vestito appena di un perizoma sui fianchi apollinei (erano pur le mamme che dovevano portare i figli al cinema) padrone di rudimentale sintassi («Io Tarzan, tu Jane») e di uno scimpanzè capace di suonare una campana. In quest’epoca arcigna di ritorno al creazionismo fondamentalista spacciato e insegnato a scuola come scienza, anche quel sospetto che fra l’atletico uomo-scimmia, e la furba scimmia-uomo non ci fosse poi molta differenza genetica, avrebbe turbato i benpensanti. Dunque buona notte, Cheetah, chiunque tu fossi, la vera o la falsa compagna di Tarzan, che neppure portava l’orologio al polso e dunque era difficile da distinguere.
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