ABOLIRE LA MISERIA

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Che scruta le ragioni per cui gli individui possono immiserirsi al punto di disperare, anelare a uno strabiliante Redentore terreno, immaginare la salvezza schiacciando i propri simili: i deboli, in genere. Dicono che i motivi che spinsero gli europei a unirsi, negli anni ’50, sono svaniti perché il compito è assolto: la guerra è oggi tra loro impensabile. Questo spiegherebbe come mai non esistono più statisti eroici come Monnet, De Gasperi, Adenauer: uomini marchiati dalla guerra di trent’anni della prima metà  del ‘900.
Chi parla in questo modo trascura quello sguardo scrutante che i fondatori gettarono sulla questione della miseria, e l’estrema sua attualità . Trascura, anche, quel che l‘Europa unita ha tentato di fare, per creare non solo istituzioni politiche ma sociali, economiche. Dai delitti del ‘900 siamo usciti, nel ‘46, con un patto di mutua assistenza fra cittadini. È detto Welfare perché prese forma in Inghilterra grazie al piano concepito durante la guerra, su mandato del governo, da William Beveridge, uno dei fondatori della Federal Union: lo Stato del Benessere (meglio sarebbe dire Bene-Vivere: il bene dell’Essere è cosa più scabrosa) dà  sicurezza non aleatoria all’indigente, l’escluso, l’anziano, il paria. 
Per questo è una grave svista pensare che l’Europa abbia concluso la missione, e stia lì solo come arcigna guardiana dei conti in ordine. Esattamente come nel dopoguerra, sono richiesti Fondatori, Inventori: se la crisi odierna è una sorta di guerra, è urgente immaginare istituzioni durature perché i mali che stanno tornando (miseria, diseguaglianza) non trascinino ancora una volta le società  in strapiombi di disperazione, risentimento, e quell’odio dell’altro che si disseta bramando capri espiatori (ieri gli ebrei, oggi gli immigrati e in prospettiva anche i vecchi che “muoiono così tardi”). 
Abolire la miseria: così s’intitolava lo splendido libro che l’economista Ernesto Rossi, autore con Altiero Spinelli e Eugenio Colorni del Manifesto di Ventotene, scrisse in carcere nel ‘42 e pubblicò nel ’46: “Bisogna unire tutte le nostre forze per combattere la miseria per le stesse ragioni per le quali è stato necessario in passato combattere il vaiolo e la peste: perché non ne resti infetto tutto il corpo sociale”. La sfida oggi è identica, e sono le pubbliche istituzioni nazionali e europee a doversi assumere il compito. Affidarlo a chiese o filantropi vuol dire regredire a tempi in cui solo la carità  era il soccorso. 
In molti paesi arabi sono gli estremismi musulmani a occuparsi del Welfare, confessionalizzandolo. Non è davvero il modello da imitare: gli Stati europei si sono sostituiti alle chiese fin dal ‘200, creando istituzioni laiche aperte a tutti. Anche l’Europa unitaria investe su organismi comuni perché – sono parole di Jean Monnet – “gli uomini sono necessari al cambiamento, ma le istituzioni servono a farlo vivere”. E aggiunge, citando il filosofo svizzero Amiel: “L’esperienza d’ogni uomo ricomincia sempre; solo le istituzioni diventano più sagge: accumulano l’esperienza collettiva e da quest’esperienza e saggezza, gli uomini sottomessi alle stesse regole vedranno cambiare non già  la loro natura, ma trasformarsi gradualmente il loro comportamento”. È laico anche questo: voler cambiare i comportamenti, non la natura dell’uomo.
È importante ricordare come nacque il Welfare, perché in Europa, Italia compresa, le campagne elettorali si svolgeranno su questi temi, e sul banco degli imputati ci sarà  spesso la medicina stessa che dopo il ’45 ci somministrammo sia per abolire le guerre, sia per abolire la miseria. Non è improbabile, ad esempio, che le destre italiane – non ancora emendate – tramutino l’Europa in bersaglio: da essa verrebbero quelle regole che ci impoveriscono e commissariandoci, ci umiliano. L’attacco al governo Monti, quando s’inasprirà , sfocerà  in attacco all’Unione. È già  chiaro negli slogan leghisti. Lo è nell’offensiva di Berlusconi contro le tasse: cioè contro il tributo che ciascuno (specie i ricchi) deve versare per preservare la pubblica salute.
Rifondare oggi l’Europa concentrandosi sulla lotta alla miseria significa capire perché l’Unione ci chiede certi comportamenti, e al tempo stesso inventare istituzioni aggiuntive che diano sicurezza all’esercito, in aumento, di disoccupati e precari. Significa comprendere che la battaglia al debito pubblico non è una mania né una mannaia: è il patto generazionale che l’Unione ci chiede di stringere, visto che gli Stati da soli non l’hanno fatto per timore delle urne. Il Trattato di Maastricht impone di non caricare le generazioni future di debiti contratti dalla presente generazione per procurarsi dei beni senza pagare le relative imposte, scrive Alfonso Iozzo, economista e federalista europeo, in un saggio sulla re-invenzione del Welfare (“Il Federalista”, 1/2010).
Val la pena leggerlo, questo saggio, che poggia sulle solide basi di studi fatti da James Meade, Nobel dell’economia, sui modi di garantire redditi minimi di cittadinanza all’intera società . Il presupposto è estinguere il debito degli Stati, e trasformarlo in credito pubblico: in un patrimonio che lo Stato preveggente tiene per sé, dedicandolo non alle spese correnti ma al finanziamento del Welfare, questo bene non solo sminuito ma spesso inviso. Iozzo è convinto, come il liberal Meade, che la ricchezza delle nazioni o dell’Europa (il Pil) vada calcolata con nuovi metodi (Meade chiamava il suo Stato Agathopia, il Buon posto in cui vivere). Il criterio non è più la differenza fra quel che costano i beni prodotti e il reddito ricavato. È il patrimonio di cui dispone lo Stato, è la sua gestione: l’obiettivo è sapere se alle generazioni future verrà  lasciato un capitale maggiore o minore di quello che noi abbiamo ricevuto dalle generazioni precedenti. Le leggi di Maastricht applicano tale metodo, prescrivendo come primo passo l’estinzione del debito pubblico.
Resta da compiere il secondo passo: la trasformazione del debito in un credito che protegga i cittadini in tempi di crisi. Non tutti hanno come patrimonio il petrolio norvegese, ma Oslo è un modello e ogni Stato ha l’acqua, l’aria, possibilmente nuove forme di energia: altrettanti beni pubblici consumati dall’individuo. Poiché petrolio e gas prima o poi finiranno, la Norvegia ha istituito con i ricavi energetici un Fondo pensione sottratto all’azzardo dei mercati. Solo il 4% del Fondo può essere annualmente usato per la spesa pubblica, lasciando ai cittadini un capitale a disposizione per il futuro, quando il patrimonio sarà  esaurito (ogni norvegese è proprietario virtuale attraverso il Fondo di circa 100.000 euro, contro una quota del debito pubblico a carico di ogni italiano di 30.000 euro). 
Avendo combattuto i debiti pubblici, l’Europa potrebbe escogitare iniziative simili, inducendo gli Stati a garantire nuova sicurezza sociale. Non solo; potrebbe far capire che nei costi vanno ormai incluse l’acqua sperperata, l’aria inquinata: beni non rinnovabili come il petrolio norvegese. Si parla molto di far ripartire la crescita. Ma essa non potrà  esser quella di ieri, e questa verità  va detta: perché i paesi industrializzati non correranno come Asia o Sudamerica; e perché la nostra crescita sarà  d’avanguardia solo se ecologicamente sostenibile.
Di qui l’importanza delle prossime elezioni: non solo quelle nazionali, ma quelle del Parlamento europeo nel 2014. Chi griderà  contro le tasse e contro l’Europa troppo patrigna e severa promette un paese dei balocchi, dove è sempre domenica e sempre truffa. Meglio saperlo prima, che troppo tardi. Meglio ricominciare l’eroismo, di cui non cessa il bisogno.


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