by Editore | 24 Dicembre 2011 7:56
«Ardeva la guerra nella Liguria fra gl’Ingauni e gli Epanterii, quando Magone vi accorse dall’isola minore delle Baleari, per tentarvi la sua fortuna». Sono passati 2.215 anni dal giorno in cui il fratello di Annibale mise a ferro e fuoco Genova con l’appoggio di Savona. Ma l’ostilità tra le due città non è ancora cessata. Anzi. E si riaccende sempre intorno allo stesso conflitto millenario: il porto. Chi delle due avrà il Grande Porto del futuro?
Lo scriveva nel 1963, nel reportage collettivo del Corriere «L’Italia sotto inchiesta», anche Piero Ottone. Raccontando come l’una e l’altra città , pugnaci rivali da oltre una ventina di secoli soprattutto da quando «Savona l’ambiziosa» era stata occupata nel 1528 dai genovesi e costretta ad assistere rabbiosa alla demolizione di mura e baluardi usati per interrare il porto, progettassero entrambe un nuovo, moderno, avveniristico scalo marittimo «a sedici miglia di distanza l’uno dall’altro».
Mezzo secolo più tardi, pare non essere cambiato nulla. Certo, nessun genovese teorizza più come Giovanni Battista de Fornari, uno dei Magnifici nel Maggior Consiglio cinquecentesco, la necessità di distruggere la «Cartagine ligure» e deportarne gli abitanti. Ma l’antica rivalità resta accesa al punto di spingere il Secolo XIX a dedicarle tempo fa una pagina: «Genova e Savona, fraterne nemiche». Pagina dove Giuseppe Marcenaro spiegava che tanta ferocia genovese nella demolizione della rivale era dovuta all’accusa che quella mai si era rassegnata al dominio della «Superba» e aveva «brigato, con la complicità di Ludovico il Moro, la possibilità di dividere la Liguria in due parti» ottenendo «il dominio della riviera di ponente».
Dice il cabarettista ispano-savonese Enrique Balbontin che «Savona è l’Atene ligure, la capitale della West Coast», che «Genova vive un complesso di sudditanza» e che la rivalità anziché calare «aumenta sempre più» coinvolgendo perfino i pesci giacché «se un genovese entra nel porto di Savona, viene accolto da banchi di cefali merdaioli che guizzano dall’acqua percuotendosi l’inguine con le pinne».
Fatto sta che, come dicevamo, tutto finisce sempre intorno ai porti, alle rotte, alle banchine, alle navi. Tanto che ai genovesi della «Costa Crociere», che pure hanno scelto Savona come porto di partenza, viene rinfacciato non solo di tagliare fuori dai tour il Duomo e la Cappella Sistina (eretta dallo stesso Sisto IV, trafficone e nepotista, cui è intestata anche la stupenda versione michelangiolesca in Vaticano) ma di distribuire ai crocieristi depliant di «castronerie» come la citazione quale «simbolo della città » del Priamar. Cioè della fortezza costruita dai genovesi proprio per marcare il loro dominio sul capoluogo dei rivali.
Tagliando corto, la sfida di oggi è questa: chi riuscirà ad accaparrarsi il business del grande traffico delle immense navi portacontainer?
Dice «UE Energy & Transport» che Genova era ancora nel 1980, dopo Rotterdam, Anversa, Amburgo, Marsiglia e Le Havre, il sesto porto continentale dopo aver controllato nel 1971 il 13% del traffico europeo. Poi non ha fatto che perdere posizioni. Colpa dei costi, dei collegamenti ma soprattutto dei fondali insufficienti ad accogliere le nuove gigantesse del mare, navi capaci di portare fino a 18 mila teu, cioè container da sei metri. Bestioni che pescano da 15 a 18 metri e mezzo e che a Genova, con i fondali di oggi, non potranno attraccare mai.
Ed ecco la corsa contro il tempo. Di là , sotto la Lanterna, stanno febbrilmente tentando di sbranare il sottosuolo del mare, con le draghe e con una nuova tecnologia finlandese di piccole esplosioni, per scavare fondali capaci di accogliere navi come la Emma Maersk, che è lunga 397 metri cioè quanto quattro campi da calcio e finora ha potuto attraccare solo in una simulazione al computer del «Secolo». Di qua, dalla parte dei «cartaginesi», i fondali profondi (da 15 a 20 metri) li hanno naturali a Vado Ligure. Dove hanno progettato un nuovo terminal di Savona-Vado appoggiato dai dominatori planetari del settore, i danesi della Maersk. Che stando agli ultimissimi dati Alphaliner portano ogni anno 2.535.536 container, controllano il 16% del traffico mondiale, hanno 659 navi di cui molte enormi e ne hanno ordinate altre dieci da 18.000 teu. Che messi in fila, container dopo container, coprirebbero una distanza di 108 chilometri. Come da Bologna a Rimini. Ogni nave.
I genovesi, va da sé, vedono il progetto savonese come il fumo negli occhi: «Genova ha banchine per movimentare oltre 3 milioni e mezzo di teu: il doppio di quanto si sta movimentando oggi. Che senso ha investire in un nuovo terminal a Vado, senza avere i collegamenti ferroviari necessari a portare la merce in Europa?», si è sfogato il presidente Associazione agenti marittimi Giovanni Cerruti, «perché non favorire un accordo tra Maersk e Voltri Terminal Europa, per consolidare il loro traffico a Genova?». «Perché Vado ha già due linee di valico che non sono l’ultimo grido della scienza ma bastano e avanzano per quel che servono alla Maersk», risponde Rino Canavese, presidente Autorità portuale di Savona-Vado, «E ci siamo comprati sei locomotive per avviare i carichi verso i grandi nodi ferroviari. Treni nostri. Non so se mi spiego. Abbiamo un collegamento diretto con il Piemonte e la Lombardia e l’Europa che gli altri se lo sognano. Ma in ogni caso perché tante gelosie? C’è posto per tutti».
Lo scriveva già il genovese Ottone: se i genovesi sono «persone difficili, pervase da una morbosa diffidenza per tutto quanto succede fuori della loro città » e convinte che a nord di Busalla «vi siano solo terre inospitali, popolate da barbari», Savona al contrario «non è già più Liguria: è Piemonte. La città , coi portici alti e sobri, tranquilla e casalinga, ha un aspetto piemontese. Nel suo migliore ristorante si servono arrosti succulenti e teneri bolliti, con un buon vino rosso. I piemontesi premono per uno sbocco al mare. Hanno già stabilito una testa di ponte e cercano di allargarla. C’era prima del fascismo l’ente portuale Torino-Savona; nel 1947 fu ricostituito col nome Savona-Piemonte. Questa spinta verso il mare ha radici profonde nella storia e i Savoia furono, per molti secoli, i suoi protagonisti». Eredità raccolta dalla Fiat, che imbarcava qui, a Vado, «molte automobili destinate all’esportazione» e contribuì «alla costruzione dell’autostrada fra Savona e Torino» e comprò «una grossa area industriale per costruirvi uno stabilimento siderurgico».
Il progetto di Vado-Savona è ambizioso: fare una nuova piattaforma multifunzionale in grado di accogliere perfino le portacontainer più grandi, che sempre meno vogliono trasbordare i carichi su navi più piccole in porti di smistamento come Gioia Tauro. Un bestione di 211 mila metri quadri largo 290 metri e lungo 700 capace di movimentare a regime 720 mila teu. «Una struttura fenomenale», dicono i sostenitori. «Un mostro», ribattono gli ambientalisti, che accusano il progetto di essere stato maggiorato rispetto all’originale che aveva avuto il via libera ambientale e di prevedere dragaggi che solleveranno fanghi chissà quanto tossici e minaccerebbe nella rada «un prato di Cymodocea nodosa».
Ribattono di là che no, «negli ultimi anni i tecnici hanno effettuato numerosi rilevamenti (in tutto sono stati 156) sui fondali davanti a Vado per conto della stessa Autorità portuale di Savona» e «ne è emerso un quadro rassicurante» anche se «la presenza accertata di sostanze inquinanti in alcune aree ha fatto scattare l’allarme del Comune» che ha intimato «una bonifica dei fondali prima di procedere con i dragaggi». Tema che, peraltro, viene scaraventato (con meno virulenza polemica) anche contro i dragaggi dei «cugini» genovesi davanti a Sampierdarena.
Come andrà a finire? Certo è che la Liguria, così bella e così fragile ma decisa a conservare la sua dimensione industriale, è chiamata ancora una volta a fare una scelta difficile. Anche perché, ha spiegato su «Capo Horn» Bruno Dardani, tra i massimi specialisti del settore, «l’inefficienza portuale italiana» regala ai porti nordeuropei almeno un milione e mezzo di container che potrebbero essere sbarcati nei porti liguri di Savona-Vado, Genova e La Spezia (dove transita la metà del traffico italiano, ammaccato dal tracollo di Gioia Tauro precipitato dal 23° al 40° posto) con un enorme risparmio di Iva.
Per capirci: i soli 490 mila container che contengono merce diretta al mercato italiano ma che vengono sbarcati ogni anno nei porti del Nord Europa per poi essere trasportati via ferrovia o camion in Italia, scrive Dardani, «producono un gettito di 5,8 miliardi di Iva. Iva che dovrebbe essere naturalmente italiana ma della quale arriva solo il 25% del valore merce. Dei 5,8 miliardi che dovrebbero entrare nelle casse dell’Erario, 4,6 restano nelle casse di Olanda, Belgio e Germania, mentre solo 1,2 vengono effettivamente incassati dalla Dogana italiana».
Uno spreco insensato, accusano i sostenitori del progetto. Che sventolano numeri da capogiro: la nuova piattaforma di Vado costerebbe 450 milioni ma tolti i 150 messi dalla Maersk lo Stato dovrebbero metterne «solo» 300. Che grazie al rientro dell’Iva oggi pagata a Rotterdam, Anversa o Amburgo, sarebbero recuperati «in un paio di anni».
Ne vale la pena? «Assolutamente no», rispondono gli ambientalisti. «Assolutamente sì», ribattono i fautori della piattaforma, «A meno che la Liguria non intenda rinunciare alla sua vocazione storica». E scelga di smettere di essere ciò che è stata per diventare terra di poeti, santi e bagnanti…
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