Vent’anni con Internet

by Sergio Segio | 14 Novembre 2011 7:22

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«Non c’è stato un momento “eureka” nella creazione del Web. Un momento preciso in cui ho detto: è fatta! È stato piuttosto un percorso lungo. Se devo indicare un inizio potrebbe essere addirittura il 1980 quando scrissi un programma che si chiamava Enquire: io ero un giovane fisico e lavoravo al Cern di Ginevra. Quel programma mi serviva a tenere traccia del complesso di relazioni fra persone, idee, progetti e computer di quella straordinaria comunità  di scienziati. Era solo ad uso personale. Poi nel 1989 scrissi un memo ai miei capi, un memo storico anche se allora non potevo saperlo. Proponevo di creare uno spazio comune dove mettere le informazioni a disposizione di tutti: lo chiamai il Web. L’idea era avere una rete dove chiunque potesse facilmente avere accesso a qualunque informazione, e dove aggiungere informazioni fosse altrettanto facile. Nel 1991 già  funzionava fra gli scienziati e ho iniziato a diffonderla nel resto del mondo. Sono passati vent’anni esatti e posso dire che abbiamo avuto un certo successo…».
Tim Berners Lee ha 56 anni, è nato a Londra ma ormai da tempo vive e insegna al MIT di Boston; ha vinto il Millennium Prize, è considerato una delle 100 persone più importanti del secolo scorso e la regina Elisabetta II lo ha nominato cavaliere nel 2004. Per questo è diventato “sir”. Ma il titolo più importante glielo ha dato la Storia, con la maiuscola: è il creatore del World wide web. Stenta a credere che per molti Internet e il Web siano sinonimi. «Qualche giorno fa in Polonia stavo cercando di spiegare ai traduttori la differenza fra Internet e il Web. Visto che non ci riuscivo, ho chiesto: come spiegate il periodo che passa fra l’invenzione di Internet, 40 anni fa, e quella del Web, 20 anni dopo? E loro mi hanno risposto: 40 anni fa avevamo il comunismo e quindi per noi i due concetti sono sinonimi. In Italia la sapete la differenza?».
Per parlare del futuro di Internet, della necessità  che tutti abbiano accesso alla rete e per soffiare sulle prime venti candeline del www, sir Tim oggi è a Roma dove aprirà  una conferenza a lui dedicata: “happybirthday web”.
Wikipedia indica nel 6 agosto 1991 la nascita del Web, ovvero la messa in rete del primo sito:info.cern.ch. È una data speciale che dobbiamo trasmettere ai nostri figli? Avete in qualche modo festeggiato?
«A dire il vero non molto. Il 6 agosto 1991 ho solo mandato un messaggio al newsgroup alt.hypertext per far conoscere il Web al resto del mondo. Ma era già  disponibile all’interno della comunità  del Cern. Per me già  esisteva».
Molti dicono: Berners-Lee è stato bravo, ma il Web l’ha creato per caso mentre cercava di costruire un sistema per la gestione delle informazioni.
«Assolutamente no! Infatti lo chiamai subito World wide web, la grande rete del mondo, anche se molti mi diedero del presuntuoso. E gli indirizzi dei siti, le Url, le volevo chiamare Universal resource identifier. Ma quel nome fu bocciato dalla comunità  degli ingegneri. Mi dissero: come puoi definire questa cosa “universale”? E io, che ero l’ultimo arrivato in quell’ambiente, cedetti: ok, chiamiamolo Uniform, dissi, così almeno non cambiava sigla».
Per difendere l’apertura del Web, spesso si dice: è una piattaforma per l’innovazione. Difficile dirlo a chi pensa che Internet serva solo a mandare mail o aggiornare lo status su Facebook.
«Intanto va detto che quando la gente manda una mail o sta in un social network, spesso ha uno scopo creativo. L’idea del Web, quello che sta dietro tutto, è che se una persona ha una mezza buona idea e l’altra metà  sta nella testa di un altro, il Web è il connettore che permette alle due metà  del cerchio di unirsi. L’idea è una rete da tessere».
È un’arma di costruzione di massa.
«Bella definizione. Questa è l’innovazione del Web. Non tutte le tecnologie portano innovazione. Una tecnologia può essere di “fondamenta” o di “soffitto”. La prima è la base che supporterà  sviluppi sempre più importanti. L’altra no: è progettata per creare un valore immediato e quindi denaro al suo fornitore. Il Web è una tecnologia “fondamentale”».
Sul fronte opposto stanno sistemi come quelli adottati da Apple e Facebook?
«C’è una battaglia, o meglio, una tensione costruttiva, fra l’esigenza di fare soldi e quella di innovare. Un’azienda può avere la necessità  di controllare l’intero sistema per fornire buone prestazioni e acquisire clienti e quindi pagare bene i propri programmatori. Ma se finisce con l’essere troppo dominante e chiusa limitando la libertà  della gente, perderà  mercato. Un giardino meraviglioso ma chiuso non può competere con la bellezza di una folle e indomita giungla».
Il giardino della Apple ha perso il suo giardiniere. Qual è stata la sua reazione alla notizia della morte di Steve Jobs?
«Ho scritto un post sul mio blog. Una volta ci siamo quasi incontrati in una riunione di sviluppatori di NeXT in Francia. Lui osservò molte cose in quella stanza, ma andò via prima di poter notare il World wide web».
Il NeXT era il computer visionario che Jobs realizzò quando venne licenziato dalla Apple. E su un NeXT lei ha scritto il codice del Web. Insomma, era un po’ anche roba sua…
«È vero, scrissi il progetto su un NeXT e fu incredibilmente facile. Era un computer che veniva dal futuro. Ricordo lo stupore quando mi arrivò e lo scartai, nel settembre 1990. La mail era già  configurata e si apriva automaticamente con un messaggio audio di Jobs in persona che iniziava così: “Non stiamo più parlando di personal computer ma di interpersonal computing, collaborazione fra le persone”. Geniale! In quegli anni chi aveva un computer era molto frustrato. E Steve Jobs lo aveva capito. Aveva capito che i computer dovevano essere utili, collaborare con l’utente e fare ciò che l’utente si aspetta; e poi essere lineari, facili da usare e belli da vedere. Oggi lo diamo per scontato: del resto il sistema operativo del Mac e dell’iPhone si basa sul NeXT…»
Parliamo dell’Italia: siamo molto indietro per la diffusione della Rete. Che cosa ci stiamo perdendo?
«Prima di tutto penso che l’ubiquità  della Rete sia più importante della velocità . La velocità  è importante se vuoi vedere un video in alta definizione; ma l’ubiquità , anche con connessioni più lente, significa che puoi ricevere e spedire la posta e far parte dell’economia digitale. E poi: dando una banda larga minima a tutti si possono spostare i pagamenti pubblici online risparmiando un sacco di soldi. Insomma, penso che dovreste fare un grosso sforzo per colmare il divario digitale, per portare la Rete anche nelle aree rurali e in quei luoghi dove c’è gente che semplicemente non ha ancora imparato ad usare questa tecnologia. Questo significa anche creare luoghi pubblici dove tutti possono usufruire della Rete: immagino Internet-Point nelle piccole città  e nei paesini dove andare per pagare il bollo dell’auto online, o cercare un lavoro, ritrovare i parenti che si sono persi di vista da tempo, mettere in vendita la macchina, insomma fare quelle cose che la gente ancora non sa fare online».
La scelta che sta facendo l’Italia sembra l’opposto: portare la banda ultralarga nelle grandi città  e nelle aree industriali, e lasciare indietro gli altri.
«Non è solo una questione di altruismo, il punto è come rendere il Paese più operativo e funzionale. Si tratta di capire se un Paese è serio oppure no. È un Paese serio quello in cui non si riescono a raggiungere contemporaneamente tutte le persone, e la gente non è informata tempestivamente su quello che succede, e non è in grado di rispondere alle emergenze? No, non è un Paese dove investire».
L’Open government, ovvero quella serie di politiche che coinvolgono i cittadini nella amministrazione attraverso trasparenza e strumenti di partecipazione, può contribuire a diffondere l’uso del Web?
«Un governo digitale è molto più efficiente di un governo basato sulla carta, perciò prima il Paese abbatte il digital divide e meglio è. Ma l’Open government vuol dire arrivare a coinvolgere i cittadini per ottenere un feedback e magari una consulenza spontanea. È molto di più. Poi, c’è tutta la questione degli Open Data…».
A che punto è arrivata la campagna per liberare i dati pubblici?
«I dati che il governo ha nei suoi archivi sono una risorsa preziosa per migliorarci la vita. Sapere, ad esempio, se un certo treno è in funzione e sta viaggiando, quali strade hanno delle buche, dove si trova la posta più vicina, il numero di crimini commessi in una determinata area del Paese, dove sono custoditi i piani di emergenza anti-alluvione… Essere in possesso di questo tipo di informazioni può far prendere decisioni migliori. E poi, c’è la trasparenza, che alcuni mettono al primo posto. In Gran Bretagna sta diventando normale che i dati relativi alla spesa pubblica siano “aperti”. Il Web è il luogo dove tutti possono verificare come vengono spesi i soldi dei cittadini».
Dopo 20 anni, il Web è diventato quello che aveva immaginato?
«Sono molto contento della quantità  incredibile di cose successe, ma purtroppo non vedo tanta gente che usa il Web in modo efficace per realizzare nuove idee. Internet è nato come piattaforma per lavorare insieme, e invece quasi tutti si limitano a usarlo per leggere e basta. Evidentemente gli strumenti di collaborazione che abbiamo non sono ancora adeguati».
Dice “ancora” perché sta lavorando a un progetto di questo tipo?
«Sì, sono entusiasta di progettare, tra le altre cose, strumenti per il Web semantico che si basano sul concetto di dati collegati fra loro. Il Web semantico riguarda i dati, mentre i motori di ricerca lavorano con documenti ipertestuali. La sfida dei motori di ricerca è stata di cercare di creare una struttura dove non c’era alcuna struttura, tentando di infondere ordine e significato laddove non vi erano né ordine né significato; mentre con i dati l’ordine e il significato ci sono già . Quando si dispone di dati in un archivio, essi sono già  ben ordinati e ben strutturati e hanno un significato molto più definito di gran parte dei contenuti presenti sul Web. Adesso finalmente sempre più persone stanno capendo il valore dei “linked open data”. Sarà  così il nuovo Web e sarà  più intelligente».
Il Web ha creato moltissimi ricchi: ha rimpianti di non essersi arricchito?
«No. Se qualcuno mi vuole dare un sacco di soldi, a me non dispiace. Ma a me non dà  fastidio che la gente abbia aperto attività  sul Web e sia diventata ricca, anzi».
Oltre due miliardi di persone usano il Web. Percepisce l’apprezzamento della gente per quello che ha fatto?
«Sì, un apprezzamento immenso. Però sono anche molto contento di non essere riconosciuto per strada! Vorrei dire un’ultima cosa…»
Prego.
«Vorrei solo ricordare il sito “WebFoundation.org”. Si tratta di una nuova Fondazione per combattere il divario digitale: c’è un vero abisso di opportunità  tra coloro che hanno Internet e utilizzano il Web in modo efficace, e tutti gli altri. Di fatto, il collegamento alla Rete sta diventando così importante per l’umanità  che ormai potremmo pensare all’accesso ad Internet come a un diritto universale. Il Nobel per la pace Liu Xiaobo ha definito Internet un dono di dio; bello, ma io preferisco parlarne come di un diritto dell’uomo».

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