Un’Aula infuocata per l’atto finale

by Sergio Segio | 13 Novembre 2011 8:23

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ROMA — È finita. Alle 17 e 39 minuti la Finanziaria è legge e Silvio Berlusconi si alza dal suo scranno per non sentire quel che ha da dirgli l’onorevole Roberto Antonione. Il leader dei ribelli prende la parola mentre i banchi del suo ex partito si svuotano e coloro che gli erano amici e compagni lo sommergono di fischi, gli gridano «traditore» e «venduto» e un pidiellino furioso quanto spiritoso, con le mani sul viso a mo’ di megafono, tira le tende sulla Seconda Repubblica: «Spegni la luce, ciao!».
Si spengono così, le luci sul governo e sull’era berlusconiana. Con una seduta sguaiata e rissosa, in stridente contrasto con l’ansia di un Paese in emergenza. E mentre davanti a Palazzo Chigi la folla canta «bye bye Silvio», la Camera approva in via definitiva la legge di stabilità . I voti a favore sono 379, i contrari 26, gli astenuti 2. Il Pd non vota, l’Idv boccia il provvedimento, il Terzo polo si esprime come la maggioranza. Ma il clima è tutt’altro che bipartisan.
A incendiare una seduta pigra e burocratica è Dario Franceschini, che a nome del Pd esordisce così: «Oggi scende il sipario su una lunga e dolorosa pagina della storia italiana». Dal centrodestra un coro di sdegno scandisce l’intervento del capogruppo democratico. «Il governo è caduto in Parlamento», va avanti Franceschini. E Antonello Iannarilli, presidente della Provincia di Frosinone: «No, è caduto per i traditori e i venduti». Dai banchi del Pd replicano «basta!» e intanto l’ex segretario avverte gli Scilipoti, i Razzi e le Polidori che il 14 dicembre salvarono dal ribaltone il governo Berlusconi: «I nomi e i cognomi sono agli atti, non li dimenticheremo…». Boati, urla, il «responsabile» Maurizio Grassano che grida «buffone», Iannarilli che rincara con ogni genere di insulto e l’ex ministro Claudio Scajola che si alza, si volta e redarguisce il collega: «Ma che fai? Cosa dici?». Un teatro. E nemmeno di prim’ordine. Basti dire di Domenico Scilipoti, il re dei peones, il quale denuncia un fantomatico «colpo di Stato» e si lancia in un’invettiva contro la «lobby delle banche», garante di «mercenari e delinquenti». Risate assordanti dai banchi delle opposizioni, dove si scherza su Scilipoti «re dei mercenari». Ma lui, il leader del Movimento di responsabilità  nazionale, non ha finito, scrive di getto un cartello con l’evidenziatore e lo sventola verso il banco di presidenza: «Vergogna Fini». Umberto Bossi sbadiglia vistosamente, Franco Frattini strappa un biglietto che gli ha indirizzato, così pare, lo stesso Bossi. Gianfranco Fini annuncia che Santo Versace trasloca nell’Api e l’augurio è una bordata di fischi, gli stessi che incassano i neonati «Liberali per l’Italia» di Antonione, Gava, Destro, Pittelli e Sardelli.
I due deputati dell’Svp votano contro e anche per loro i «complimenti» si sprecano. «Restituite i soldi!», inveisce un deputato del Pdl. I finiani sono euforici. Il capogruppo Benedetto Della Vedova si affida al «Rimontiamo» che imperversa sul web, uno slogan che gioca con il nome del premier in pectore Mario Monti. E Berlusconi? Entra in Aula solo sul finale, provato e quasi smarrito, nel momento in cui Fabrizio Cicchitto rende pan per focaccia a Franceschini: «Non si può parlare di governi di convergenza se si arriva a questo appuntamento con la carica di faziosità  che vi sta caratterizzando… Noi non saremo dei penitenti che vengono a chiedervi scusa». Entra il premier, dunque. I suoi (leghisti esclusi) scattano in piedi, acclamano «Silvio! Silvio!», persino Giulio Tremonti batte le mani e lui, dal suo scranno, si alza e ringrazia composto, con tre misurati inchini della testa. E qui Cicchitto chiama la standing ovation per il Cavaliere disarcionato: «Si è dimesso anche se non era costretto, a lui va tutta la nostra solidarietà  per gli attacchi incivili…».
È l’ora di uscire di scena. Mario Pepe prende «congedo dai ministri dell’ultimo governo democraticamente eletto» e Berlusconi lo ringrazia con un cenno della mano. Giustina Destro è «triste per la fine di Silvio tra gli insulti». Tristissime appaiono le ministre in abito nero, Mara Carfagna, Stefania Prestigiacomo e Michela Vittoria Brambilla. Rassegnato è Saverio Romano e tutt’altro che arresa Giorgia Meloni. Nei rispettivi dicasteri gli scatoloni per il trasloco sono pronti e il gruppo del Pdl alla Camera non sa come far fronte alle richieste di nuove stanze per i ministri «senza casa». Antonio Di Pietro esulta alla «liberazione» e, di fronte a Palazzo Chigi, fa un gesto che ricorda quello dell’ombrello. Ma lui smentisce: «Volevo dire “vai a casa”». Un’altra foto simbolo ritrae Giancarlo Galan, il già  ministro della Cultura, mentre si aggira in maniche di camicia davanti a Montecitorio.
È davvero finita. Gianfranco Rotondi sorride, ma gli occhi sono colmi di amarezza: «Io gli scatoloni li avevo già  fatti il 14 dicembre…».

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