by Sergio Segio | 23 Novembre 2011 7:16
Questa raccolta di alcuni degli articoli pubblicati su Repubblica a partire dai primi mesi del 2008 fotografa lo stato critico della democrazia italiana contemporanea con le lenti di una concezione del governo democratico che ha nelle procedure e nel dissenso i suoi perni. (…)
Quando cominciai la mia collaborazione con il giornale la maggioranza che è oggi al governo aveva appena vinto le elezioni, dopo la fine anticipata di una legislatura che aveva due anni prima affidato a una coalizione di centro-sinistra guidata da Romano Prodi il compito di governare il paese. La caduta di quel governo, sorretto da una maggioranza divisa, litigiosa e soprattutto risicata, fu orchestrata dalla potente lobby mediatica dell’attuale Presidente del Consiglio e facilitata da un neonato Partito democratico, debole nella struttura e velleitario. Il governo Prodi venne assalito con argomenti che, alla luce della crisi gravissima che il nostro paese sta attraversando ora, sollevano dubbi sulla saggezza e l’intelligenza delle nostre leadership politiche: l’accusa che gli si muoveva era di eccessiva severità sul piano del risanamento economico e la troppa coerenza nella lotta all’evasione fiscale. I ministri Tommaso Padoa Schioppa e Vincenzo Visco furono trasformati in simboli negativi di un governo famelico di tasse e rigorista. Il ricordo della seduta parlamentare nella quale il ministro Padoa Schioppa difese il suo piano di rigore fa oggi rabbrividire perché negli attacchi che venivano dai banchi delle opposizioni e nel debole sostegno che veniva da quelli della sua maggioranza era anticipata la traiettoria della crisi abissale nella quale il nostro paese si trova oggi. Il governo Prodi cadde essenzialmente per aver proposto risanamento e rigore e per essersi impegnato con severità nella lotta all’evasione fiscale (il ministro Visco, paragonato dall’opinione di destra a un vampiro, non fu neppure ricandidato dal suo partito).
La campagna elettorale che preparò la débacle del centro sinistra – e in particolare quella dell’appena nato Pd che si presentò solo contro una coalizione ampia, agguerrita e ricca all’inverosimile di strumenti mediatici, economici e propagandistici – fu condotta da Berlusconi secondo una strategia alla quale il suo governo è poi restato costantemente fedele. Nella genesi della nuova maggioranza erano contenuti tutti gli elementi di quello che si può senza esitazione definire come il peggiore governo dell’Italia repubblicana, perpetratore di un’offesa profonda alla nostra costituzione e agli stessi diritti fondamentali.
La vittoria del centro destra inaugurò una democrazia plebiscitaria e populista come nemmeno il precedente governo capeggiato dallo stesso Berlusconi era riuscito a fare. Plebiscitaria perché improntata sulla centralità della politica come teatro, inscenata con quotidiana sistematicità fino a trasformare i cittadini in una audience passiva che applaude e “tifa” – una politica della passività e della docilità dei molti, ottenuta per mezzo dell’attivismo mediatico dei pochi. Populista perché fondata sulla sostituzione di una “parte” (un partito) al tutto (il popolo sovrano) e ha messo in atto quella che i liberali chiamano “tirannia della maggioranza”; inoltre populista nello stile: per la protervia e la violenza verbale introdotte nella dialettica politica, televisiva e istituzionale, un fatto che ha mutato profondamente il carattere del confronto politico nel nostro paese, mettendo in secondo piano i contenuti e il dialogo ragionato ed esaltando l’invettiva personale e la polemica virulenta e vuota perché più spettacolare. (…)
Non sappiamo ancora che volto avrà il dopo-ventennio videocratico. È lecito sospettare che l’identità del governo Berlusconi abbia marcato e segnato l’identità dell’opposizione e di chi verrà dopo. Perfino l’opposizione al populismo può aver maturato una sua propria concezione strumentale e populista delle regole democratiche. Del resto, alucuni dei movimenti che sono nati durante il ventennio di egemonia berlusconiana sembrano riproporre la critica ai partiti, l’attacco alla politica, l’insofferenza per le regole e i “parrucconi” delle istituzioni, cavalli di battaglia del Popolo delle Libertà .
L’opposizione al patrimonialismo e poi l’uscita dal ventennio videocratico richiederebbero che si ricostruissero i partiti di partecipazione per correggere e integrare quelli parlamentari, poiché proprio nella trasformazione dei partiti da organi di formazione dell’opinione politica a organi di gestione parlamentare risiede il nodo della crisi della nostra democrazia. Il populismo è più un sintomo che una causa: la sua comparsa mette a nudo la debolezza dei partiti nella loro capacità rappresentativa che è quella di mettere le istituzioni in raccordo con la cittadinanza. La soluzione dovrebbe venire dalla ricostruzione dei partiti politici – canali di partecipazione e opinioni politiche; questo vale soprattutto per la sinistra, la cui anemia e astenia sono un problema per l’intera democrazia italiana. Ridare alla rappresentanza politica una funzione di collegamento con la partecipazione, non di sostituzione o di surrogato: questa è la sfida più difficile e urgente.
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