Un voto che i militari sperano servirà  a cambiare poco o nulla

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«Le divisioni politiche devono essere rimandate a vantaggio dell’unità  e della formazione di un vero governo rivoluzionario». E’ stato il noto scrittore Alaa Aswani, un paio di giorni fa, a lanciare questo appello per la piena realizzazione della rivoluzione del 25 gennaio. Attenti, pare voler spiegare Aswani agli egiziani, togliere i poteri ai militari e passarli ad autorità  civili è più importante persino delle elezioni legislative di domani. Ma se in piazza Tahrir c’è piena comprensione delle parole del romanziere egiziano e della necessità  di andare sino in fondo contro la giunta militare, una fetta consistente della popolazione guarda a quanto avviene nelle strade del paese con crescente preoccupazione e teme di pagare in prima persona le conseguenze, soprattutto economiche, della crisi.
I primi ad andare a votare domani saranno gli elettori di Cairo, Alessandria, Luxor e Porto Said. Ieri però la Commissione elettorale ha ipotizzato un rinvio, per ragioni di sicurezza, delle votazioni nella capitale e ad Alessandria. Il 14 dicembre sarà  la volta di Suez, Aswan, Ismailyia. Il 3 gennaio si voterà  nel Sinai e sulla costa mediterranea. Non pochi attivisti sceglieranno l’astensione, in segno di dissenso verso i generali al potere. Si prevede che un 50-60% degli egiziani andranno alle urne, quindi più del 40% che partecipò al referendum costituzionale dello scorso marzo. Nei seggi elettorali entreranno in massa militanti e simpatizzanti delle formazioni islamiste, i copti e gli altri cristiani che con il loro voto credono di arginare il successo dei Fratelli musulmani, ritenuto sicuro. E al voto andrà , ma non si sa con quale percentuale, l’Alto Egitto rimasto ai margini durante la rivoluzione di gennaio e anche in questi giorni nei quali i grandi centri urbani, dal Cairo ad Alessandria fino a Suez hanno urlato la loro rabbia contro il Consiglio militare. E proprio l’Alto Egitto potrebbe riconfermare nell’Assemblea del popolo (Camera bassa) diversi deputati del disciolto Partito nazional democratico dell’ex rais Hosni Mubarak, che nel frattempo si sono riciclati come indipendenti o hanno formato nuovi partiti. Nella nuova Assemblea del popolo potrebbero perciò ritrovarsi in maggioranza le forze che non hanno fatto sul terreno la rivoluzione di gennaio. Come negli ultimi giorni di Mubarak al potere, i leader dei Fratelli musulmani evitano la piazza e le manifestazioni anti-regime e lavorano per la stabilità  invocata dai militari al potere. La sinistra, molto attiva tra lavoratori, soprattutto con le sue nuove formazioni, raccoglierà  consensi limitati e pochi deputati.
Con l’intento evidente di spaccare il fronte della protesta, ieri il maresciallo Hussein Tantawi, capo delle forze armate, ha incontrato separatamente al Cairo l’ex direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), Mohamed ElBaradei, e l’ex segretario generale della Lega araba, Amr Musa. Un faccia a faccia convocato al momento giusto. Non pochi considerano ElBaradei e Musa come i «leader» dell’ «esecutivo di salvezza nazionale» creato un paio di giorni fa in risposta all’incarico di formare il nuovo governo affidato dai militari all’anziano ex premier Kamal Ganzuri. Ma l’esecutivo di salvezza nazionale non pare realmente alternativo a quello che stanno formando i militari. Assomiglia piuttosto ad un «comitato di saggi». ElBaradei, un moderato, vorrebbe farne una sorta di organo di consulenza del governo. In ogni caso gli islamisti si sono schierati contro l’ex direttore dell’Aiea. Secondo il quotidiano Youm7, oltre 20 movimenti e partiti di quell’area stanno preparando un comunicato per respingere la nomina di ElBaradei a «capo» dell’esecutivo creato da piazza Tahrir.
Da parte loro Tantawi e gli altri generali continuano a non operare alcun cambiamento vero e a mantenere intatta la struttura del regime che fino a dieci mesi fa era guidato da Mubarak. Ieri, ad esempio, hanno confermato per un terzo mandato consecutivo il governatore della Banca centrale Farouk el-Okdah che, a sorpresa, giovedì aveva innalzato i tassi di interesse per la prima volta in oltre due anni, rendendo ancora più difficile l’accesso al credito. Un passo falso in un paese dove l’economia è in caduta libera, sempre più egiziani finiscono sotto la soglia di povertà  (due dollari al giorno) e la crescita è passata dal 7% degli anni scorsi all’1% del 2011. Ma el-Okdah ai lavoratori e alle tante piccole imprese che chiudono, ha preferito le sirene del Fmi e delle agenzie di rating. Ha scelto di salvaguardare le riserve di valuta estera scese del 40% negli ultimi 10 mesi a causa del sostegno che la Banca centrale ha dovuto dare al pound egiziano. In caduta libera è anche il turismo (10% del Pil) con la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro in tutto il paese. Condizioni che presto o tardi affievoliranno la protesta popolare a vantaggio dei militari che il potere lo lasciaranno solo alle loro condizioni.


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