Un disastro di nome Silvio

by Sergio Segio | 17 Novembre 2011 9:14

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E non ha fatto un «buon lavoro» come presidente del consiglio. Il suo passo indietro nasce da uno stato di necessità , non da un normale galateo istituzionale e politico. Visto l’appoggio a un governo comune, i democratici visti in tv sono apparsi fin qui molto imbarazzati nel criticare i ministri precedenti. Mentre i pidiellini, novelli riformisti, ricordano ogni due per tre che gli spread sono alle stelle anche senza Berlusconi e che la crisi mondiale è «la più grande dal 1929».
Tutto vero. Ma anche no. La crisi è globale ed europea ma secondo tutti gli osservatori internazionali pubblici e privati l’Italia è il suo epicentro. Troppo grande per fallire, troppo grande per non salvarsi da sola.
Prima dell’arrivo di Monti è perciò decisivo fare una due diligence del governo appena trapassato. Di ciò che ha fatto e di ciò che non ha fatto.
Nonostante la cura Tremonti il debito italiano dal 2008 a oggi è aumentato di oltre 250 miliardi (su 1.900). Disoccupazione e crisi rischiano di desertificare «il secondo paese manifatturiero d’Europa» senza che sia ancora nata una paragonabile industria dei servizi.
Dal dibattito sul «declino» tipico degli anni ’90 siamo arrivati a quello sul «default». Il welfare è sul lastrico. Dal 2010 la sanità  è stata tagliata di 17 miliardi, gli enti locali di 33. E le tasse sono al massimo storico: nel 2014 la pressione fiscale supererà  il 48%. Più che in Svezia. Senza contare l’aumento dell’inflazione e dell’Iva, di prezzi e tariffe. E poi i super-ticket, il blocco del Tfr e degli stipendi, l’esodo forzato nel pubblico impiego, l’articolo 8, etc., etc.
E’ giusto che le istituzioni gli concedano l’onore delle armi. Ma Berlusconi è caduto perché era semplicemente insostenibile. Eppure sulla carta si è dato da fare: sommate tra loro tutte le manovre di quest’anno superano i 140 miliardi. Una correzione di rotta tanto gigantesca quanto incerta nell’applicazione.
Ancora l’11 luglio scorso (tra una manovra estiva e l’altra) Tremonti diceva a Repubblica: «Chi ci chiede di fare di più, o di anticipare ad oggi le misure previste per il prossimo triennio, non ha capito nulla. Se lo facciamo ci suicidiamo: ammazziamo il Paese. La verità  è un’altra. Ai mercati daremo un segnale forte. E sa qual è? – diceva il ministro a Massimo Giannini – Il fatto che la manovra è blindata, e sarà  approvata dal Parlamento in una settimana. Una cosa che nella storia d’Italia non è mai accaduta».
Da allora quella che sembrava un’eccezione è diventata la regola. E sono apparsi subito chiari gli effetti reali della cura Tremonti. «Senza sviluppo la manovra è socialmente insostenibile» (Cnel). «Senza decisi tagli alla spesa è inevitabile aumentare le tasse» (Bankitalia). «C’è il forte rischio di aumento delle tariffe» (Istat). Poi, il 4 agosto, è arrivata la lettera di Draghi e Trichet. Berlusconi e Tremonti, per una volta d’accordo, provano a convincere Bossi a intervenire sulle pensioni. Ancora una volta la spunta il Carroccio. Il 15 settembre, in una camera assediata e nell’aria acre dei lacrimogeni, il decreto di agosto è legge.
Ma non serve. A Roma Tremonti prepara l’ultima finanziaria. Allestisce un seminario sulla dismissione dei beni pubblici, chiede una mano a tutti i poteri che contano. Prova a salvarsi dal naufragio ma capisce che il tempo stringe ed è sempre più solo. Berlusconi è furioso. E Confindustria ripete come un mantra: «Il tempo è scaduto, il tempo è scaduto, il tempo è scaduto…».
Berlusconi chiede soldi freschi da mettere sul decreto sviluppo. Tremonti risponde parlando di Waterloo e Westfalia. Resiste: niente da fare, tutte riforme «a costo zero». Studia una legge per costruire le autostrade da sole, i costruttori asfaltano, si mettono al casello e non pagano le tasse. Rimarrà  lettera morta perché il ministro Matteoli appena si fa vedere in giro viene coperto di fischi. Berlusconi invece infila nelle bozze del decreto 12 condoni e soprattutto la norma anti-Veronica per l’eredità  delle quote societarie.
A fine ottobre tutti i nodi vengono al pettine. Tremonti e Berlusconi sono attesi in Europa e devono portare i «compiti fatti». Giuliano Ferrara intima di approvare per decreto, sic et simpliciter, la lettera della Bce. Più saggiamente, Tremonti opta per spostare tutto nella legge di stabilità . Berlusconi non ci sta, chiude Calderoli, Sacconi e Brunetta a casa sua e gli fa scrivere una fumosissima lettera a Bruxelles mai approvata dal consiglio dei ministri. Sarà  un caso ma in Europa appena la leggono decidono subito di mandare gli ispettori, con tanto di questionario scritto per avere chiarimenti. E a Washington il Fondo monetario sblocca 44 miliardi per le emergenze.
Il tempo è finalmente scaduto. Il 4 novembre, al G20 di Cannes, l’agonia italiana va in scena davanti agli occhi del mondo. Tremonti e Berlusconi provano a collaborare ma offrono uno spettacolo pietoso. Il Cavaliere assicura che «la crisi non esiste», i «ristoranti sono pieni» e «sugli aerei si fatica a trovare posto».
Dopo sei lunghi mesi di opposizione, Marcegaglia inizia a vedere la luce. Tremonti si arrende. Torna a Roma e scrive il maxiemendamento direttamente al Quirinale. Da allora non parlerà  più.
Napolitano giganteggia sulle risse da pollaio, accetta il voto a rischio sul rendiconto generale (quota 308, Silvio cade) e poi anche la quarta manovra passa senza discussioni: bravo Berlusconi. Bravissimo. Ora però tocca a Monti.

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