Tutte le colpe per una tragedia

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L’apocalisse di Genova mette drammaticamente allo scoperto le responsabilità  di tutti, vecchie e nuove; l’incuria e il degrado; l’abbandono del territorio e i tagli dei fondi statali; ma anche l’incapacità  dell’amministrazione locale a fronteggiare un’emergenza ampiamente prevista e annunciata.
Sappiamo bene, e qui l’abbiamo ripetuto fin troppe volte, che il dissesto del Malpaese ha origini complesse e remote. E tuttavia, in questa occasione, emerge una responsabilità  più immediata e diretta di chi governa una città  critica come Genova, con un territorio morfologicamente a rischio, compromesso da una lunga pratica di cementificazione, speculazione e abusi edilizi, ancor più che dalle sue caratteristiche naturali. Di fronte a una tale situazione endemica, l’amministrazione comunale non ha saputo né prevenire né contenere i danni e soprattutto non ha saputo impedire questo tragico bilancio di vite umane.
Da giorni era scattato l’allarme della Protezione civile sul pericolo, definito “elevatissimo”, che incombeva su Genova e sulla Liguria. È chiaro che, in uno stato di allerta, nessuno può rimuovere le cause più profonde di un disastro di queste dimensioni: dal cambiamento climatico al dissesto idrogeologico. Ma che senso ha, allora, invitare la popolazione a restare a casa e poi lasciare aperte le scuole, i negozi, gli uffici? O non sospendere la circolazione e chiudere le strade al traffico privato?
Qualche tempo fa, in attesa di un uragano che fortunatamente si rivelò meno violento del previsto, l’amministrazione cittadina di New York e la stessa Casa Bianca decretarono il coprifuoco. Il sindaco e perfino il presidente degli Stati Uniti furono accusati di inutile allarmismo. Ma non conviene, allora, eccedere in cautela e prudenza quando è minacciata la sicurezza collettiva, piuttosto che affidarsi al caso o alla buona sorte? Il sindaco di Genova non avrebbe fatto meglio a seguire l’esempio del suo collega americano?
Senza buttare la croce addosso a nessuno, e senza cercare a tutti i costi un capro espiatorio, bisogna dire che né il Comune né la Regione, né tantomeno il governo nazionale, si sono dimostrati all’altezza della situazione. Quella che manca in realtà  è un’autentica e profonda cultura ecologica, in grado di modificare radicalmente la difesa del suolo e quindi di gestire le eventuali emergenze, partendo dalla consapevolezza che queste purtroppo ci sono e ci saranno anche in futuro.
Basta consultare del resto l’ultimo rapporto dell’Ispra, l’Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale, per verificare la “mappa del rischio” regione per regione. E si tratta di un ente pubblico, finanziato dallo Stato, da tutti noi cittadini e contribuenti. L’Istituto registra e denuncia testualmente “un consumo di suolo elevato in quasi tutti i Comuni studiati e un incessante incremento delle superfici impermeabilizzate”, ricoperte cioè di cemento, asfalto, plastica, materiali metallici, “causato dall’espansione edilizia e urbane e da nuove infrastrutture, con una generale accelerazione negli anni successivi al 2000”. A che servono dunque tutti questi rapporti, questi studi, se poi restano lettera morta?
Il fatto è che la difesa dell’ambiente è forse l’unico settore in cui i danni prodotti dai tagli di bilancio, a parte il valore della vita umana, sono destinati prima o poi a superare i rispettivi risparmi. Costa senz’altro di più ricostruire che prevenire. Ma, a cominciare proprio da qui, occorre recuperare in primo luogo un’etica collettiva della responsabilità : nei confronti della natura, del prossimo e di noi stessi.


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