Tra i disperati in fuga dalla Somalia così gli Shabaab arruolano per la jihad

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DADAAB (KENYA).  Con le manette ai polsi e stretto tra i soldati kenyani, il feroce Shabaab non fa più paura. Per essere un combattente della Jihad somala vicina ad Al Qaeda, l’uomo è sorprendentemente in carne, al limite della pinguedine. Non ha l’aspetto belluino né lo sguardo crudele, ma continua a masticare sbadigli, come incurante del destino che l’attende una volta che sarà  stato processato. Destino che un poliziotto locale ci riassume così: «Si beccherà  una decina d’anni di galera, ma tra pochi mesi un suo compagno di cella gli spezzerà  il collo, perché quelli come lui in Kenya sono considerati peggio degli stupratori di bambini».
L’hanno catturato in flagrante, lo Shabaab, mentre cercava di fare proseliti offrendo soldi in una della miriade di tende di Dadaab, il più popoloso complesso di campi per rifugiati al mondo, a un centinaio di chilometri dal confine somalo. Di campi, nel suo disordinato territorio, Dadaab ne conta cinque, che ospitano complessivamente 463mila persone: alcune sono qui dai primi anni Novanta; ma molte altre, circa 190mila, sono approdate negli ultimi mesi per sfuggire alla guerra o alla carestia che funestano la Somalia. Queste, sono state sistemate in tende nuovissime, dove sul cotone grezzo si staglia nitida la scritta dell’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, che gestisce l’insieme delle strutture. Gli altri rifugiati, invece, quelli che vivono qui da anni o addirittura decenni, abitano in tende che sono diventate baracche, rappezzate ovunque con stoffe di ogni colore o con teloni di plastica, protette da lamiere ondulate, ingrandite con tronchetti d’albero o assi di legno: nel suo genere, ognuna è un prodigio dell’architettura più povera che ci sia.
Lo Shabaab s’era avvicinato a una di queste, carico di banconote. Qualcuno deve averlo denunciato. Già  allertati sulla presenza di infiltrati jihadisti tra gli sfollati, i soldati sono giunti in un batter d’occhio e l’hanno acciuffato. «Ci mancavano solo gli Shabaab», si lamenta Mohammed Hassan, da tre anni ospite con la sua famiglia a Dadaab. «Fuggivamo dall’inferno, e qui abbiamo trovato rifugio, ma quando ci manca il cibo per sfamarci o l’acqua per i pochi capi di bestiame che abbiamo portato con noi, siamo costretti a uscire dal campo. Ci imbattiamo allora nella popolazione locale, che spesso ci aspetta armata di bastoni. Con l’ultima ondata di profughi per noi sono cominciati altri guai. Ci sono meno cibo e meno acqua, e adesso c’è anche la polizia che penetra in piena notte nelle nostre tende per controllare se non nascondiamo mujaheddin».
Nei campi profughi oltre confine, gli Shabaab agiscono indisturbati. È quanto accade, per esempio, ad Ala Yasir, nel Sud della Somalia, dove reclutano nuove leve distribuendo latte e vestiti, o denaro e capre, a famiglie disperate, che hanno perduto tutto. In cambio, chiedono i loro figli, per addestrarli nel deserto e mandarli magari a morire imbottiti di tritolo in un mercato di Mogadiscio. In questa terra di nessuno, per avere le mani più libere i fondamentalisti somali hanno cominciato con l’allontanare le altre organizzazioni umanitarie, impedendo loro di distribuire aiuti. Pochi mesi fa, il World Food Programme dell’Onu ha preferito abbandonare l’area per i maltrattamenti subiti dal suo staff.
Ma a Dadaab è diverso. Anzitutto perché è in territorio kenyano e poi perché qui di organizzazioni umanitarie ce ne sono una trentina, da Medici senza frontiere, a cui gli Shabaab hanno rapito due operatrici il 15 ottobre scorso, a Care, Save the Children, Unicef, Iom, Cesvi e via elencando. Dopo il sequestro delle operatrici di Msf, l’ultimo di una serie di rapimenti di donne europee, il Kenya ha reagito inviando soldati e blindati oltre frontiera, con l’obiettivo di conquistare Chisimaio, roccaforte degli estremisti islamici. Per paura di rappresaglie, il governo di Nairobi è stato immediatamente costretto a rafforzare la sicurezza interna, anche nella capitale, dove nel solo quartiere di Eastleigh vivono 400mila somali, tra i quali si mimetizzano molti Shabaab.
Inoltre, come spiega Sonia Aguilar, public officer dell’Unhcr a Dadaab, le autorità  kenyane hanno anche dovuto dispiegare con urgenza più agenti di polizia nei campi per rafforzare le misure di sicurezza sia per i rifugiati sia per gli operatori umanitari. Dice la Aguilar: «La situazione è in piena evoluzione, e non mi sentirei di fare previsioni da qui a un paio di settimane. Posso solo dirle che la security è nelle mani della polizia kenyana, alla quale abbiamo chiesto di non calpestare i diritti civili dei profughi».
Intanto, per via delle operazioni militari alla frontiera e dell’inizio di una breve ma intensa stagione delle piogge, a Dadaab si assiste a un netto calo del numero di nuovi arrivi dalla Somalia. Nell’ultima settimana non s’è registrato nessun nuovo rifugiato. Molti pastori hanno deciso di accamparsi nel deserto, preferendo i velenosissimi serpenti, i ragni cammello e gli scorpioni, all’ira degli Shabaab in guerra.


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