Sul sentiero dell’egemonia

by Sergio Segio | 9 Novembre 2011 7:27

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Sebbene sia stata rapidamente archiviata, la proposta del leader socialista e ex premier greco Georges Papandreou di un referendum attorno alle proposte dell’Unione europea per fronteggiare la crisi del paese ellinico offre una preziosa occasione per riflettere sul senso e sul futuro della battaglia per i beni comuni, divenuta politicamente rilevante in Italia dopo l’esito dei referendum per l’acqua pubblica e il nucleare.
Il linguaggio nuovo dei beni comuni, l’impegno politico di tantissimi uomi e donne attorno alla gestione dei beni comuni ha portato a un voto popolare che ha mostrato le potenzialità  di una nuova egemonia culturale e politica nel paese, con una base sociale trasversale che supera la tradizionale contrapposizione fra destra e sinistra; e che rende la costruzione di una «società  dei beni comuni» una sfida entusiasmante e possibile, perché riesce a cogliere la tendenza, ampiamente diffusa nel paese, che ha nel rifiuto delle delega al sistema politico uno dei tratti più evidenti. Sono inoltre uomini e donne che sfuggono alla melodia stonata delle sirene dell’antipolitica, ponendosi allo stesso tempo l’obiettivo di costituire laboratori tesi alla individuazione di soluzioni ai disastri sociali prodotti dal neoliberismo.
Indignazione alle stelle
Il paragone non risulti irriverente, ma così come sul finire degli anni Settanta del Novecento è stata la destra economica e politica a rispondere ai problemi posti dalla crisi petrolifera attraverso la produzione di una ideologia e una piattaforma culturale preparata da accademici reazionari come Milton Friedman, Friedrich Von Hayek e Ludvig Von Mises, l’operazione da compiere oggi è la stessa, ma di segno contrario. Infatti, di fronte a una crisi economica ben più drammatica, l’obiettivo è di sviluppare una griglia concettuale e una weltanschauung incardinata proprio sui «beni comuni» e che ha tutte le capacità  per neutralizzare la naturalizzazione bipartisan del neoliberismo, proposta, sul piano globale, da Bill Clinton e Tony Blair; dai «governi tecnici», invece, a livello italiano. Va dunque fatto tesoro di quanto è accaduto nella cosiddetta «primavera italiana».
In giugno, infatti, oltre all’intero elettorato dell’opposizione parlamentare, una parte rilevante dell’elettorato cattolico conservatore e della Lega Nord ha infatto votato a favore dei due referendum, producendo nelle urne una promettente alleanza fra componenti della borghesia «per bene» e la sinistra radicale. E sempre nelle urne questa alleanza ha garantito il successo di Luigi De Magistris e Giuliano Pisapia nelle elezioni amministrative.
L’esito dei referendum e delle elezioni amministrative era impensabile data la rappresentazione che era fatta dai media rispetto i rapporti di forza nella società  e nell’arena politica. Va ricordato che due anni fa veniva approvato, con un voto di fiducia alla Camera, il Decreto Ronchi per la gestione dell’acqua. Tutto quanto infatti deponeva a favore di un’accettazione rassegnata del decreto Ronchi, alla luce anche della «presa in giro» avvenuta nella sala Nassirya, dove ad accogliere Giovanni Conso e Stefano Rodotà , relatori autorevoli della proposta di legge sull’acqua pubblica presentata dalla regione Piemonte (che non è stata ancora discussa), c’erano senatori di ogni schieramento politico. Poche ore dopo, nello stesso giorno, la Camera ha però votato lo stesso la fiducia sul decreto Ronchi. È in quel contesto che è avvenuto un «moto di indignazione» che ha portato un gruppo di giuristi, compresi quelli che scrivono, a redigere, per conto del Forum dei movimenti per l’acqua, i quesiti referendari sull’acqua bene comune e a istituire il Comitato referendario Siacquapubblica, assorbito da una produttiva dialettica politica fra accademia e movimenti sociali che si è espressa nella mobilitazione per la raccolta delle firme per il referendum.
I successivi mesi di lavoro politico e giuridico, con il record nelle firme raccolte e l’insperata dimensione del successo in Corte Costituzionale, hanno segnato l’inizio di un entusiasmante processo politico nel paese capace di utilizzare un linguaggio nuovo che chiedeva di cessare immediatamente il saccheggio dei beni comuni e di «invertire la rotta» per porre le basi di un «governo democratico dell’economia» radicalmente alternativo alle privatizzazioni e alle liberalizzazioni, parole chiave del dogma che ha regolato le politiche economiche in molti paesi europei e non solo.
I referendum di Giugno possono quindi essere considerati l’anticipato equivalente funzionale della proposta referenderia in Grecia. In Italia, come ad Atene nei giorni scorsi, era il popolo sovrano, e non soltanto l’accademia o una commissione ministeriale come quella presieduta da Rodotà , a dover esprimersi contro le politiche di austerità  e il saccheggio dei beni comuni.
Un bilancio eversivo
L’esito dei referendum è noto a tutti. Minore attenzione è stata posta sul dispositivo messo in campo per contrastare quella straordinaia produzione di egemonia in un paese importante come l’Italia. La lettera firmata da Trichet e Draghi così come la manovra di Ferragosto (puntualmente impugnata in Corte Costituzionale) altro non è che il tentativo di imporre, con una modalità  per certi versi eversiva dell’ordine costituito, un governo tecnico o un governo del presidente che rilanciasse politiche di austerità  e che cacellasse l’esisto del referendum. La critica contro l’articolo 41 della Costituzione – quello che stabilisce la libertà  di iniziativa economica, sempre che non sia in contrasto con la sua utilità  sociale, prefigurando così forme di controllo su di essa – e la campagna per la costituzionalizzazione della golden rule (il pareggio di bilancio) costituiscono infatti vere e proprie campagne per ridimensionare la portata politica del tema dei beni comuni.
Anche in questo caso, se il parallelo non fosse troppo irriverente, l’attacco all’articolo 41 e la costituzionalizzazione della golden rule possono essere comunque considerati un vero e proprio processo costituente messo in campo dai poteri forti per normalizzare la stituazione italiana. La risposta deve dunque essere adeguata, ma anche questa volta di segno contrario. Serve cioè un nuovo momento costituente di popolo per porre al centro della scena pubblica la questione democratica e dei beni comuni. Non è però una strada in discesa. Né un pranzo di gala, come attesta la campagna diffamatoria, e bipartisan, contro il movimento NoTav. D’altronde la posta in gioco è alta e riguarda la traduzione politica di questo nuovo blocco sociale egemonico nel paese.
Ci sono già  alcune iniziative che indicano la strada da percorrere. A Napoli, la costituzione di Abc Napoli e l’assessorato ai Beni Comuni è un primo passo per mostrare come si possa rispettare la volontà  popolare e, al tempo stesso, di come possano essere meglio gestiti senza scopo di lucro i servizi pubblici di quanto non faccia il privato azionario (o il pubblico colluso). A Roma il Teatro Valle occupato da quasi cinque mesi mostra un metodo dal basso, fondato sull’azione diretta e la democrazia radicale, di come la cultura possa essere pensata un bene comune. In Valle di Susa un’intera popolazione si batte per la salvezza del bene comune territorio. Sono, queste, solo alcune delle iniziative attorno ai beni comuni che hanno messo radici in Itlia.
Oggi la partita per il modo e le circostanze che potrebbero rendere traducibile la nuova egemonia in rappresentanza politica è aperta e la violenza verbale utilizzata contro la battaglia dei beni comuni da qualche giornalista (Pietro Ostellino sul «Corriere della Sera» di sabato scorso) mostra che i poteri forti hanno paura della democrazia in Italia in nome della difesa dei «mercati».
La battaglia per i beni comuni deve infine mostrare la capacità  di prefiguare una rifondazione di un settore pubblico forte, autorevole e trasparente, capace di contrapporre una visione alta, prodotta in rapporto con le migliori intelligenze del paese, alla visione asfittica e di breve periodo dei poteri forti europei e dei loro garanti nazionali.
Tutto ciò pone con altrettanta evidenza la centralità  dei mezzi necessari affinché la battaglia in difesa dei beni comuni risulti vincente. Nonostante la proposta sia stata ritirata, il referendum greco (e prima ancora quello islandese) è da considerare uno strumento adeguato per resitutire la sovranità  al popolo: quella stessa sovranità  che l’Unione europea pensa essere un attentato alla stabilità  economica e politica del vecchio continente. Occorre a questo fine costruire le condizioni per creare un grande movimento politico e sociale che non lasci, ad esempio, sola la Fiom nella battaglia referendaria già  decisa sull’articolo 8 della manovra di Ferragosto. In altri termini, dobbiamo elaborare un pacchetto di referendum altamente simbolici sui beni comuni, accomunati tuttavia dalla stessa visione politica
Appagante parsimonia
Innanzitutto una serie di referendum legati alla cultura bene comune che fra loro condividano lo spirito del Teatro Valle Occupato: uno contro l’Università  azienda; uno contro la la Rai lottizzata e piegata alla volontà  partitocratica; uno contro un’ editoria che vuole condannare al silenzio voci libere e critiche. Identificheremo poi un referendum legato alla questione difesa, che consenta di ribadire ai troppi che se ne sono scordati, che l’Italia ripudia la guerra e che molti soldi si possono risparmiare facendolo; infine uno o più quesiti che vadano ai gagli vitali della naturalizzazione economica del neoliberismo in Italia.
Su questo ultimo aspetto, le proposte non possono che riguardare le misure sulle liberalizzazione definite negli anni Novanta che, con la scusa di entrare o restare in Europa, hanno trasferito a poche oligarchie risorse ingentissime che appartengono a tutti noi e che oggi andrebbero utilizzate con onestà  e la parsimonia necessaria nella cura dei beni comuni. Per questo, vanno studiate quesiti contro la trasformazione della Cassa Depositi e Prestiti in Società  per azioni. Allo stesso tempo vanno elaborate proposte affinché le Fondazioni bancarie, da ritenere anch’esse un bene comune, non possono diventare imprese da mettere sui mercati finanziari.
Tutto questo per dire che la posta in gioco è alta. Per questo, la convergenza tra diritto e azione politica politica di movimento è una delle scommesse su cui puntare per un’emergenza economica ed ecologica mai prima ad ora così drammatica.

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