Somalia, liberati dai pirati dopo 7 mesi finisce l’incubo per sei ufficiali italiani

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«Sì, stiamo tutti bene. È tutto a posto». Telegrafico, la voce rotta dall’emozione, il comandante Orazio Lanza conferma in serata le indiscrezioni che si inseguono dal primo pomeriggio. La Rosalia D’Amato, un cargo di 70 metri della società  armatoriale di Napoli “Perseveranza navigazione”, dopo sette mesi nelle mani dei pirati somali, è stata finalmente liberata. Esultano i 21 membri dell’equipaggio: quindici marinai filippini e sei ufficiali italiani.
Quattro sono campani: Gennaro Odoaldo, terzo ufficiale di coperta, e Vincenzo Ambrosino, allievo ufficiale di macchina, entrambi di Procida; Giuseppe Maresca, secondo ufficiale di coperta, di Vito Equense; Pasquale Massa, primo ufficiale di coperta, di Meta di Sorrento, ma da tempo residente in Belgio. Con loro Antonio Di Girolamo, direttore di macchina, di Mazara del Vallo e il comandante Orazio Lanza, di Messina.
L’Unità  di Crisi della Farnesina ha seguito sin dalle 10.30 del mattino le ultime fasi del rilascio. Ma con cautela. «Si tratta di un’operazione ancora in corso», ha spiegato in una nota. Il cargo, spiega il comandante, ha avuto l’autorizzazione ad avviare i motori: può prendere il largo, lasciare la rada di Eyl, nel Puntland, la “Tortuga” dei corsari del Corno d’Africa, e puntare sull’Oman. Annunciare il rilascio del mercantile è troppo rischioso. Meglio aspettare che raggiunga un tratto di mare sicuro, che venga affiancata da una delle nostre unità  militari della Combinated Task force 150, la forza internazionale che pattuglia il tratto di oceano più pericoloso al mondo.
Finisce un vero incubo. Era iniziato il 21 aprile scorso. Dopo aver imbarcato un carico di soia a Paranagua, in Brasile, diretta al porto di Bandar Imam Khomeini, in Iran, la Rosalia D’Amato era stata affiancata da due barchini di pirati nel cuore della notte. Il comandante si era accorto solo all’ultimo di quello che stava accadendo. Incrociava a 345 miglia a sud-est di Salah, in Oman. Non pensava ai pirati, si sentiva al sicuro. Si sbagliava: i nuovi bucanieri non sono più i vecchi pescatori somali rimasti senza lavoro. Si sono trasformati in vere gang criminali. In pochi minuti venti uomini, armati di bazooka e fucili automatici, raggiungono la coperta, s’impossessano della nave e costringono l’equipaggio a invertire la rotta. Il comandante riesce a lanciare l’allarme. Ma è inutile. Il mercantile raggiunge in un giorno il Puntland e iniziano le trattative. Sul sequestro cala un silenzio ermetico.
Saranno soprattutto i familiari dei filippini a far filtrare qualche notizia. E sono notizie drammatiche: dopo due mesi finisce il carburante. Non c’è più aria condizionata, scarseggia il cibo; tutti usano lo stesso bagno: le pessime condizioni igieniche scatenano le prime forme di colera e di Tbc. Si attiva la società  armatoriale. Viene incaricato un mediatore inglese che manda avanti le trattative sul riscatto. Solo due mesi fa si scopre che a bordo ci sono 21 e non 22 persone. Ma sul resto è silenzio.
Anche in queste ore la gioia è contenuta. Tutti pensano all’altra petroliera italiana ancora in mano ai pirati somali: la “Savina Caylyn” degli armatori napoletani D’Amato: a bordo ci sono cinque italiani e 17 indiani. Sono prigionieri dall’8 febbraio scorso.


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