Ruffolo, la moneta e l’ironia storica La lezione di Carlo Magno per l’euro

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E sì, perché come racconta Giorgio Ruffolo nel suo «Testa e croce. Una breve storia della moneta» (Einaudi, 176 pagine, 17 euro), le sorti della moneta, fin dalle origini, dipendono dalla politica. E la crisi attuale dell’euro, ma più in generale del sistema monetario, è dovuta proprio al declino della politica, sopraffatta da una finanziarizzazione globale e senza regole. Una rottura storica.
Non è stato così fino al XX secolo. Il denarius, che accompagnò l’antica Roma per sei secoli, dice Ruffolo, «è soprattutto un valore, quindi un potere», è «la politica più che il mercato a sancirne la natura». Seguì «l’anarchia monetaria» fino alla fine dell’VIII secolo e a Carlo Magno, che con la sua riforma della moneta, ristabilendo il monopolio del conio pubblico e sopprimendo le diverse monete allora in circolazione, costituisce la «remota e unica anticipazione di quella nostra dell’euro». Quando entrò in crisi la moneta carolingia? Quando si frantumò l’unità  del regno.
Poi qualcosa comincia a cambiare con l’esplosione dei comuni, delle signorie e delle Repubbliche marinare: «L’Italia stava inventando il capitalismo», «sono italiane le prime multinazionali» e le attività  di cambiavalute e le banche. E con le banche nasce il credito. Non solo ai commercianti, ma su fino a nobili, papi e re. Gli italiani, sottolinea Ruffolo, «inventarono praticamente tutte le “diavolerie” della finanza moderna: lo scoperto di conto corrente, i giroconto, l’assegno», e il fiorino era «il dollaro del Medioevo», ma un dollaro fragile, perché «mancò un fattore decisivo: lo Stato». Inevitabile dunque il naufragio. Tocca ora al vero capitalismo, quello che si fonde con gli Stati nazionali e apre le porte allo storia moderna, che Ruffolo ripercorre fino ai giorni nostri. Fino a quando, nel 1980, il presidente Usa Ronald Reagan e il premier inglese Margaret Thatcher decidono di rimuovere ogni ostacolo al movimento internazionale dei capitali: «Un fatto rivoluzionario», che rende gli Stati stessi succubi del mercato, incapaci di controllare l’enorme espansione del credito e della finanza rispetto all’economia reale. La finanza diventa «un’attività  fine a se stessa» che si perpetua. Un meccanismo «in cui i debiti non si pagano mai, ma sono sistematicamente procrastinati». Una finanza che si autoespande senza limiti e regole, fino alla crisi di questi anni, tamponata con una «massa formidabile di denaro immessa nel sistema», senza che siano stati risolti i problemi di fondo. Una situazione pericolosa, che non esclude, secondo l’autore, «la precipitazione verso crisi economiche e conflitti politici devastanti». Che fare? Ruffolo non ha dubbi: bisogna «ristabilire la condizione della moneta come strumento e non come fine dell’economia». Tornare alla moneta come «norma» anziché «merce».


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