RIPARTIRE DALLE PROTESTE PER FINIRE LA RIVOLUZIONE

by Sergio Segio | 23 Novembre 2011 7:44

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La seconda occupazione della piazza Tahrir indica che le rivoluzioni arabe sono approdate a un’altra fase della loro storia. Dopo gli entusiasmi democratici della scorsa primavera, che avevano fatto credere che sarebbe bastato cambiare un capo di Stato per cambiare la società , salta agli occhi invece che i processi rivoluzionari hanno bisogno di più tempo per realizzarsi pienamente. Nei Paesi arabi, come in Russia o in Francia nel passato, la rivoluzione è una dialettica complessa, e coloro che ne escono vincitori non sono per forza quelli che per primi vi sono entrati vincenti.
La sola rivoluzione che sembra proseguire il suo corso in modo relativamente sereno è quella tunisina, probabilmente per via di una classe media colta che ha voluto l’istituzione di un organismo per la salvaguardia dei valori della rivoluzione. Quest’istanza ha permesso la transizione verso una fase costituente. Tuttavia, anche in Tunisia sono gli islamisti moderati di Ennahdah che oggi occupano la scena in primo piano, senza essere stati quelli che avevano iniziato la rivoluzione. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che le forze laiche non sono state capaci di mostrare come avevano tagliato ogni ponte con i regimi deposti. Il problema è che sono queste forze laiche le sole in grado di proporre un’organizzazione economica per risolvere i problemi sociali.
In Egitto non c’è stata nessuna struttura simile alla alta istanza tunisina, ma sono gli apparati più forti dell’ex dittatura, e in particolare lo Stato maggiore militare, che hanno continuato a controllare le leve del potere. Ciò ha scatenato una nuova esasperazione popolare, poiché non c’è stata nessuna rottura dell’apparato dello Stato con il precedente sistema di governo. Una volta caduta la testa di Mubarak, il corpo del potere è rimasto in piedi, tale e quale a prima.
A peggiorare le cose è stato il rifiuto dell’esercito di indire immediate elezioni presidenziali, per non correre il rischio di dover obbedire agli ordini di un presidente civile. Anche per questo motivo ci saranno elezioni legislative preliminari, a tre turni, secondo il vecchio sistema, che si presta a ogni tipo di manipolazione, alla rielezione di membri del passato regime e ad alleanze tra le gerarchie militari e quelle dei fratelli musulmani.
In Tunisia s’è invece prodotta una rivoluzione nell’accezione più marxista del termine. Dopo l’immolazione di Mohammed Bouazizi, hanno cominciato col sollevarsi i poveri all’interno del Paese. A questo movimento s’è aggiunta la borghesia delle città  della costa, e le due classi hanno messo da parte i propri interessi e, in un momento di entusiasmo, si sono sbarazzate del tiranno, con l’esercito che ha saputo abbandonare la scena per tempo e tornare nelle caserme. E’ bastato questo ad assicurare una transizione democratica, garantita dalla mobilitazione popolare.
Diversamente in Egitto non c’è stata una tale mobilitazione. C’è stato solo lo spettacolo di piazza Tahrir, riempita da numerosi attivisti, ma comunque pochi rispetto agli 80 milioni di egiziani. E’ stata una rivolta molto spettacolare che ha convinto sia i militari sia gli Stati Uniti a far cadere Mubarak, senza però consentire ai giovani attivisti egiziani di capitalizzare i risultati del loro successo. E’ per questo che oggi si assiste alla fase “due” della rivoluzione. Una fase che vorrebbe ritornare agli albori del movimento, nel tentativo di controllarlo meglio.
Bisogna chiedersi come potranno tenersi le elezioni la settimana prossima. E’ ovvio che se si svolgeranno nella violenza, il loro esito sarà  imprevedibile. Ora se l’esercito egiziano sapesse gestire la sua immagine, il popolo voterebbe senz’altro contro quei “vandali” che lanciano i sassi e incendiano le auto. Ma i militari egiziani non sono mai stati molto abili nell’arte di questo tipo di propaganda.

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