by Sergio Segio | 14 Novembre 2011 7:44
WASHINGTON — Nella sede della Cia a Langley c’è un muro con un centinaio di piccole stelle incise sul marmo. Ognuna ricorda un agente caduto in missione. Tra le ultime ci sono quelle di Jennifer Matthews e Elizabeth Hanson, entrambe uccise da un attentatore suicida in Afghanistan, nel dicembre 2009. La prima, dopo aver lavorato con l’unità antiterrorismo, aveva premuto per ottenere una missione in un teatro di guerra. E così le hanno affidato l’avamposto «Chapman» a Khost. Un incarico che molti dei suoi colleghi ritenevano troppo complicato per una 007 brava nell’analisi ma poco esperta di operazioni sul terreno. Jennifer è partita lo stesso, lasciando a casa tre bimbi piccoli e il marito. Non è più tornata, così come non è tornata Elizabeth, una trentenne dinamica e abile nel lavoro di «targeting», la scelta dei bersagli. Il loro sacrificio ha dato un volto e un nome all’altra metà del cielo. Le donne della «Company», della compagnia, come dicono gli ex che non sono mai ex.
L’agenzia di spionaggio è stata un mondo macho, dove le quote rosa erano viste con insofferenza. Certo, la Cia ha usato spesso le Mata Hari. Perché, come raccontano le veterane, «hanno intuito più degli uomini e spesso possono infilarsi in un territorio ostile senza suscitare sospetti». L’ideale per alcune operazioni coperte. Ma nonostante questo, l’agenzia non le ha mai premiate troppo. Per anni — recriminano le «ragazze» — è andata avanti così, tra ingiustizie e la diffidenza dei maschi. Ora però qualcosa sta cambiando. Si è aperta una breccia. Almeno cinque posizioni importanti all’interno della Cia — ha rivelato il «Washington Post» — sono affidate a delle donne. Sue Bromley, gestione quotidiana, è come se fosse la numero tre dell’agenzia. Fran Moore guida il dipartimento analisi. Meroe Park si occupa del personale del personale. Jeanne Tisinger segue il settore tecnologico legato ai computer. Infine, l’ultima arrivata. Cynthia Rapp coordina le pubbliche relazioni della compagnia.
Per qualcuno si tratta di una svolta importante. Per chi guarda alla parte vuota del bicchiere è ancora poco. In particolare mancano ruoli di leadership nel settore operazioni e in quello «clandestino» anche se sono molte le agenti che fanno il mestiere duro, «dietro le linee». I critici ricordano casi controversi che hanno avuto protagoniste le donne. Come Valerie Plame, la cui identità è stata svelata dagli avversari del marito, l’ambasciatore Wilson, perché non aveva avallato le bugie sulle armi proibite di Saddam Hussein. Più complicata la storia di Nadia Prouty. Origine libanese, ha organizzato un falso matrimonio per diventare cittadina americana ed è poi entrata nell’intelligence lavorando dall’Iraq alla Giordania. Quando hanno scoperto la bugia sulle nozze e alcune intrusioni nella banca dati Fbi è finita sotto inchiesta. Hanno temuto che stesse cercando informazioni da passare al movimento filo-iraniano Hezbollah. Il dossier resta aperto, lei ha scritto un libro per «pulire la sua immagine» da quell’ombra nera.
Anche Jennifer Matthews cercava una redenzione. Dopo il disastro dell’11 settembre la Cia aveva ordinato un’indagine interna per capire gli errori compiuti, in particolare sul perché non erano stati colti i molti segnali. Nella lista dei funzionari che avevano sbagliato c’era finito anche il nome di Jennifer. Un’ingiustizia, per alcuni. La 007 voleva la sua rivincita e una promozione che l’avvicinasse al Settimo Piano di Langley, la sezione che ospita gli uffici dove si decide tutto. Per arrivarci doveva prima passare da una «stazione» ad alto rischio. Khost. Finisce in un disastro, l’intero team della Cia è spazzato via dall’attentatore. Finisce con polemiche aspre all’interno della Cia, liti avvelenate dai dubbi sull’opportunità di aver dato il comando a Jennifer. Finisce con una lapide bianca nel settore 59 nel cimitero di Arlington e una stella sul muro dei caduti.
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