“Una presa in giro l’indennità  per i precari”

by Sergio Segio | 29 Novembre 2011 7:43

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ROMA – Dovevano aiutare i precari rimasti senza lavoro. Dovevano garantire che «nessuno venisse lasciato solo», come aveva promesso il precedente governo. Non si parla di cifre sbalorditive, più o meno il sostegno doveva aggirarsi sui 200 euro al mese. Il guaio è che molti precari non hanno intascato nemmeno quelli: la possibilità  di accedere all’indennità  una tantum – prevista per i cocopro rimasti senza occupazione fra il 2009 e il 2011 – scade a fine anno, fra poche settimane, ma l’83 per cento dei fondi non è ancora stato utilizzato. Troppe le domande non ammesse, troppo restrittivi i requisiti richiesti: «Più che un aiuto è stata una presa in giro», commenta la Cgil.
Le cifre fornite dal sindacato (dati aggiornati allo scorso ottobre) parlano da sole. Le due leggi che hanno prima varato, poi prolungato l’una tantum che doveva assicurare un aiuto ai precari (solo ai collaboratori a progetto, in verità , requisito che già  escludeva i precari del settore pubblico che sono considerati cococo, collaboratori coordinati continuativi) hanno partorito il topolino. Il sostegno copre il periodo che va dal 2009 al 2011: ad ottobre, delle 42.550 domande finora presentate solo 13.197 sono state ammesse, il tasso di bocciatura ha raggiunto il tetto del 69 per cento. Dei 200 milioni di euro che il governo aveva stanziato per il triennio, a poche settimane dalla scadenza ne vengono distribuiti solo 34.
L’assegno è modesto: la una tantum annua media distribuita è stata di 1.646 euro per il 2009, di 2.948 per il 2010 e di 2.837 euro per il 2011 (per il 2010 e il 2011 la somma da erogare deve corrispondere al 30 per cento del reddito percepito l’anno precedente, comunque non più di 4000 euro). Poca cosa, ma meglio di niente per chi non ha altre entrate.
Il progetto, dunque, non ha funzionato. Perché? «I requisiti richiesti erano tali da escludere la maggioranza del lavoro precario», spiega Fulvio Fammoni, segretario confederale della Cgil. La legge prevede che a presentare domanda possano essere solo i cocopro ex-titolari di un lavoro monocommittente; il reddito dell’anno precedente deve essere non superiore ai 20 mila euro e non inferiore ai 5 mila; il contratto deve essere scaduto da almeno due mesi, ma devono risultare versati almeno 3 mesi di contributi nell’anno precedente e uno in quello di corso. Uno slalom difficilissimo che ha lasciato per strada la grande maggioranza di chi ci ha provato. «Chiedere la monocommittenza già  significa escludere buona parte dei precari, visto che i collaboratori, spesso, operano su più progetti», commenta Fammoni. «Stabilire tetti di reddito minimi significa escludere i lavoratori che più hanno bisogno e gran parte delle donne. Per non parlare dell’abbandono a priori degli statali». Ora, chiede Fammoni, il nuovo governo ha la possibilità  di rimediare almeno in parte al fallimento. Ci sono più di 165 milioni si spendere: spendiamoli, chiede. «Quei soldi immessi nel calderone della finanza pubblica non basterebbero certo a sanare il buco dei nostri conti, ma distribuiti a chi ha perso lavoro darebbero almeno la sensazione di non essere stati abbandonati. I fondi restanti basterebbero a coprire tutte le domande presentate e ad aprire il sostegno anche ai cococo. Tanto più che il governo Berlusconi, prima di andarsene, ha fatto in tempo a decidere che il rilancio dell’apprendistato sia coperto con un punto di contribuzione in più versato da cococo e cocopro. Lavoratori che non hanno diritto all’indennità  di disoccupazione e spesso nemmeno all’una tantum: una condizione inaccettabile».

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