Quindicimila tragedie in dieci anni la fabbrica dei lutti non chiude mai

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Fabbrica Italiana Morti (di)Lavoro. Se fosse un acronimo si chiamerebbe così, e non soltanto – come scriviamo stancamente da anni – «dramma», «piaga», «scia». Per assurdo siamo persino riusciti ad associarla al bianco, inteso come colore (morti bianche) – mai così inadatto.
È un laboratorio che non chiude mai. Che uccide non stop e pianta le sue croci (tre al giorno, una ogni otto ore) in un cimitero che ospita eserciti sconfitti di operai, muratori, contadini, facchini, autisti, magazzinieri. Usciti di casa la mattina, e mai più tornati. Prima di aggiornare le ultime statistiche – qui e sempre tradotte, a proposito, con il termine «bollettini di guerra» – vediamo chi sono questi italiani che la morte va a prendere sul posto di lavoro.
Quasi esclusivamente uomini, smettono di vivere, in media, a 37 anni. Il che, con l’attuale aspettativa di vita fissata a 70,1 anni, significa che gli omicidi professionali – come qualcuno riterrebbe più appropriato chiamarli – comporta una perdita di vita pari a 43 anni. La provenienza. Sette su dieci sono italiani, ma i tre stranieri stanno diventando quattro: anzi, in alcuni settori, tipo quello, martoriatissimo, delle costruzioni, quasi cinque. Quando non muoiono finiscono sul letto di un ospedale, con perdite che vanno dalla contusione curabile al danno permanente.
Ma come è potuto succedere? In agricoltura e nell’industria (soprattutto lavorazione di metalli), schiacciati da macchinari e attrezzature meccaniche. Nell’edilizia, cadendo dall’alto. Che parlando di mattone e ponteggi è il più ricorrente tra gli incidenti (uno su quattro, 71mila nel 2010, di cui 215 mortali). In termini sociali – volendo anteporli a quelli umani e affettivi – questa sfilza di infortuni e decessi comporta una spesa complessiva di 371 milioni di euro. Per dire delle sole costruzioni. Se conteggiamo anche gli altri settori si arriva tranquillamente ai due miliardi di euro l’anno. Il punto, però, è un altro. È vero che i dati ufficiali dell’Inail registrano un progressivo calo degli incidenti – gli infortuni complessivi nei primi sei mesi di quest’anno sono stati 372mila, un 4% in meno rispetto allo stesso periodo del 2010; 428 i casi mortali con un sostanziale pareggio (-0,7%, 3 morti in meno) rispetto all’anno precedente. È vero anche che nel 2010 le morti sul lavoro (980) sono scese, per la prima volta dopo dieci anni, sotto le mille (dato più basso dal dopoguerra). Ma è altresì vero che in Italia di lavoro si continua a morire. E che – come dice Napolitano – l’idea che si tratti di inevitabili tragiche fatalita «va rifiutata».
Non ci si può fermare lì. Se nel decennio 1998-2008 il lavoro in Italia ha ucciso 15 mila persone, se gli operai morti in cantiere e in azienda tra il 2003 e il 2004 sono una volta e mezza più dei militari che hanno perso la vita nella Guerra del Golfo in un periodo ben più largo (2003-2007), se tutto questo accade bisogna andare a fondo. La sicurezza, per esempio. E la formazione. In questi settori le aziende investono sempre di meno. Con la crisi degli ultimi tre anni stime prudenti parlano di un taglio del 40%. E di un crescita importante, sebbene non quantificabile, di ricorso al lavoro nero e al caporalato, terreno di coltura della mancanza di sicurezza, e dunque dell’infortunio. Il sacrario dei morti sul lavoro accoglie ogni giorno le sue vittime. Giovani alle prime armi e veterani del mestiere. Stabilizzati e «fantasmi»: centinaia di migliaia di immigrati sfruttati per una manciata di euro l’ora, costretti a dormire in luoghi fatiscenti e persino a pagare tangenti ai mercanti di braccia che, da Nord a Sud, fanno da intermediari con imprese stressate dalla folle corsa al ribasso per l’aggiudicazione degli appalti. Dice ancora l’Inail che quando diventa arma il lavoro colpisce le sue vittime più al Nord che al Sud: 225 mila infortuni e 214 morti contro i 71mila e i 132 del Mezzogiorno, sempre quest’anno. Così funziona la fabbrica dei morti.


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