Quei 150 milioni dell’aumento Bpm e l’incrocio con Mutuel e Alessandria

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MILANO – La procura di Milano ha messo nel mirino non solo l’operazione del prestito convertendo della Bpm, fatto risaputo, ma anche la fusione tra le controllate Banca di Legnano e Cassa di Risparmio di Alessandria. A pagina 257 del prospetto informativo per l’aumento di capitale da 800 milioni, partito ieri, è evidenziata la richiesta di documentazione da parte della procura che risale al 14 ottobre scorso. Cioè una data successiva a due operazioni effettuate dalla Bpm a favore dei francesi del Credit Industriel et Commercial (Cic) e della Fondazione Cr Alessandria che hanno comportato per la banca controllante un esborso di 148 milioni di euro. Soldi che ora, con tutta probabilità , verranno riversati dai due alleati nella sottoscrizione di nuove azioni Bpm rivenienti dall’aumento di capitale. Se così fosse si rafforzerebbe il sospetto che le due operazioni siano servite alla Bpm gestita da Enzo Chiesa a trasferire capitale da una tasca all’altra della banca e a sostenere la buona riuscita dell’aumento. Infatti quei 150 milioni non rappresentano risorse fresche provenienti da investitori terzi, ma soldi provenienti dalla stessa banca e riversati sotto un’altra voce patrimoniale.
Vediamo le due operazioni in dettaglio. Secondo un documento analizzato dal cda della Bpm, il mese scorso la banca ha deciso di accettare la proposta del Cic di riacquistare per 100 milioni la quota del 6,4% che i francesi detenevano nella Banca di Legnano fin dal 2004. L’alleanza con i francesi doveva servire, secondo il presidente di allora Roberto Mazzotta, a crescere sotto il profilo commerciale e a sviluppare il filone della bancassurance dove i francesi stavano ottenendo buoni risultati. A supporto di quell’accordo nel dicembre 2004 fu sottoscritto anche un patto parasociale riguardante le regole di governance che prevedevano diversi punti tra cui l’obbligo per il rappresentante del Cic nella Legnano di dare il parere favorevole in caso di fusione. Ma anche un’opzione di vendita a favore di Cic esercitabile allo scadere del patto nel 2014 o anticipatamente in caso di risoluzione dell’accordo quadro. Nel patto era stabilito che il riacquisto sarebbe avvenuto in base al patrimonio netto della quota che nel corso degli anni è andata svalutandosi passando dagli 80 milioni del 2004 ai 76 del giugno 2011. Inoltre nel documento recentemente analizzato dal cda è scritto che in base al rapporto di concambio fissato con Alessandria (3,5 azioni Legnano per ogni azione Cral) la quota del Cic nella Banca Legnano sarebbe scesa al 5,77%.
Orbene, se la situazione era questa, non si capisce come mai il cda della Bpm si è sentito in dovere di riacquistare immediatamente il 6,4% del Cic per 100 milioni, una valutazione ben superiore al patrimonio netto e che garantisce ai francesi un rendimento interno del 7,7% all’anno dal 2004 al 2011. Non potevano lasciare le cose come stavano evitando un esborso così importante alla vigilia di una ricapitalizzazione e ottemperare alla put solo nel 2014? Si è detto che i francesi hanno minacciato di votare contro a una fusione voluta da Bankitalia e dalla quale non si poteva prescindere. Ma la minaccia avrebbe avuto effetto solo se non si fosse riusciti a garantire ai francesi la stessa governance che avevano nella Legnano, uno sforzo non impossibile visto che Bpm è in maggioranza anche nella Cr Alessandria. Con quest’ultima, poi, l’accordo stipulato il 5 luglio scorso, appare veramente appiccicato con lo scotch. Bpm ha versato ben 48 milioni per acquistare l’immobile attualmente occupato dalla Cassa ad Alessandria, di cui 27 per l’acquisto vero e proprio e 19 a titolo di “premio di maggioranza”, cioè per la possibilità  di decidere in futuro la strategia della banca. A ben vedere non si capisce la ratio dell’acquisto dell’immobile in Alessandria, dal momento che in passato si era cercato di evitarlo poiché il palazzo è molto ampio e in parte sfitto. Inoltre il pagamento del premio di maggioranza a fronte dello svincolo sulle strategie suona strano, visto che Bpm dal 2004 possiede l’80% della Cassa con un patto parasociale che garantisce alla Fondazione un posto nel cda Bpm e in Akros. Tra l’altro, fonti vicine al cda Bpm riferiscono che esistevano diverse perizie sul valore di quell’immobile, a conferma che il suo acquisto era controverso. Ancora, la partecipazione di Bpm in Cr Alessandria era strategico se si fosse riusciti a congiungerla con la Cassa di Asti per creare un piccolo polo bancario in Piemonte nelle aree lasciate libere dai colossi del settore. Ma il progetto non si è mai materializzato e la fusione tra Cr Alessandria e Legnano è il risultato della mancata Banca Unica, l’unione a tre richiesta da Bankitalia ma osteggiata dai sindacati interni della Bpm.
Fatto sta che l’operazione oggi appare monca e senza alcun senso industriale, se non quello assai limitato della riduzione di costi e della semplificazione organizzativa. In compenso c’è la netta sensazione che l’obbligo di fusione tra le due partecipate sia stato utilizzato strumentalmente per trasferire 150 milioni dalle casse della banca all’aumento di capitale. Con un vantaggio in termini di Core tier 1 in quanto così facendo dal bilancio Bpm vengono eliminati 78 milioni di “filtro prudenziale” negativo per la put che era stata concessa ai francesi a suo tempo.


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