by Sergio Segio | 15 Novembre 2011 9:15
La capacità di trasformare gran parte del lavoro vivo in tecnologia, anziché far risparmiare tempo alla forza di lavoro, ne moltiplicava la produttività e riduceva la dimensione numerica e il potere contrattuale del lavoro.
È evidente nei governi di centrodestra, che sono andati sostituendo i socialisti e i centrosinistra degli anni novanta, l’intenzione di riavvicinare i salari europei al livello di quelli mondiali. La forza che avevano raggiunto nel dopoguerra i sindacati e i contratti nazionali è sottoposta a un fuoco incessante, e quando alcuni settori, come i metalmeccanici in Italia, resistono, i governi si industriano, in nome della deregulation, a far perdere di forza agli accordi fra le parti, introducendo una molteplicità di contratti diversi, il cui culmine è costituito da un precariato senza contratti. È una frantumazione della forza dei salariati e una riduzione di quella dei sindacati, che peraltro, formatisi nazionalmente, tendono a conservare i modesti margini raggiunti entro i confini nazionali, piuttosto che organizzarsi in una prospettiva continentale. Alla crisi delle sinistre politiche si somma l’assenza di una rappresentanza europea del lavoro. E una poderosa campagna ideologica per la quale il superamento della fabbrica fordista – con la sua direzione nei piani alti e la massa di manodopera che entrava e usciva dai cancelli – è gabellata per “fine dell’operaio” proprio mentre la mondializzazione aumenta un proletariato diffuso e inorganizzato.
Da parte sua la proprietà si unifica o divide attraverso fusioni o cessioni che passano oltre i confini nazionali, rendendo al massimo astratti i rapporti, inaccessibile la fisionomia del “padrone”, spaccando la manodopera e i suoi contratti attraverso le esternalizzazioni, mentre la libertà di movimento dei capitali induce i gruppi esteri più forti a fare incursioni nel know how di ciascun paese, acquistando questa o quella azienda, salvo spostarne le produzioni nei paesi dove il lavoro è a più basso costo.
L’occupazione europea scivola, quella giovanile cade, il potere di acquisto della forza lavoro diminuisce e con esso da domanda e le entrate degli stati. Per cui sale il debito pubblico e una politica di rigore segue all’altra, rendendo sempre più esigui i margini per la crescita. Il crollo del 2008-2009 di tutta Europa ha visto un modesto rialzo nel 2010 e in questa fine di 2011 la produzione rallenta di nuovo ovunque, compreso il paese più forte, la Germania.
Da parte loro, i capitali si spostano sempre di più dall’investimento in produzione a quello sui titoli finanziari, dove i profitti sono maggiori. La pressione delle banche, diventate tutte banche d’affari, e l’invenzione di una molteplicità di derivati – che si inanellano su se stessi fino a non avere a alcuna base su cui poggiare, con la formazione e lo scoppio di una “bolla” dopo l’altra – ha portato la finanza a raggiungere una dimensione molte volte superiore all’intero Pil mondiale. Gli allarmi e i propositi dei G20 non hanno fermato in nessun modo la finanza, neanche nei limiti minimi della abolizione dei paradisi fiscali.
L’esplicitazione del conflitto sociale aveva fatto dell’Europa alla fine degli anni ’70 la regione del mondo meno squilibrata fra ricchi e poveri, il prodotto lordo ripartendosi per quasi tre quarti al lavoro e per un quarto a profitti e rendite. Nel 2000 la quota dei salari era scesa di dieci punti percentuali, al 65%, e da allora non si è ripresa. La crescita del reddito si è concentrata sempre più nelle mani del 10% più ricco e, tra i ricchi, nell’1% dei ricchissimi. Le classi medie si sono impoverite e sono aumentate le aree di povertà assoluta. Cui fanno sempre meno fronte le politiche dello stato, costretto a ridurre il sostegno ai non abbienti e ogni forma di welfare, e imporre una maggiore tassazione dei redditi bassi e medi, nella propensione di classe a non colpire i grandi redditi, travestita da speranza che essi si risolvano a reinvestirli nella produzione.
Questa spirale e l’ostinazione a non colpire né le rendite né le transazioni finanziarie ha condotto la Ue all’attuale caduta della crescita e all’indebitamento crescente degli stati. Se a questo si aggiunge il flusso di migranti, prodotti dalla speranza di trovar in Europa il lavoro che manca in altri continenti, segnatamente in Africa, si intende come i paesi più esposti al loro passaggio, come l’Italia e la Spagna, pratichino misure di impedimento al loro accesso e di espulsione, non di rado su base etnica (i rom) che contrastano con tutti i principi di diritti, umani e politici, di cui la Ue suole vantarsi. Da parte sua, la manodopera europea, colpita aspramente dai suoi governi, non vede con solidarietà i disgraziati che sbarcano sulle sue coste: la guerra tra poveri è dichiarata.
Se liberismo, deregulation e libertà di movimento dei capitali rendevano difficilissima una politica economica degli stati e la interdicevano anche alla Ue, chi diventa la forza egemone dello sviluppo dell’Unione europea?
La crisi aperta dalla catastrofe americana dei subprimes del 2008 e la crisi greca di oggi lo hanno evidenziato brutalmente. La sfera della decisione politica avendo consegnato da un lato alle priorità monetarie dall’altro al gioco dei mercati la maggior parte dei poteri che deteneva sull’economia, non è stata più in grado né di accompagnare né di correggere sviluppo o declino dei suoi paesi membri. L’accrescersi del debito greco, per gli squilibri crescenti dell’economia e una fiscalità ridicola, mentre l’Europa lasciava le sue banche specularvi a man salva, ha spinto quel paese all’insolvenza. Ma quando questa verità esplode, chi si trova davanti la Grecia? Non il Consiglio europeo né la Commissione, e tanto meno il Parlamento europeo. Si è trovata davanti l’asse franco-tedesco, le cui banche erano le sue più grosse creditrici.
Quale delle istanze europee ha incaricato Francia e Germania di affrontare la crisi greca? Nessuna. Alle spalle di Francia e Germania sono stati una Bce, il cui governatore era sulla via d’uscita per essere sostituito da Mario Draghi, e il Fondo monetario internazionale, diretto, dopo le sfrenatezze sessuali di Dominique Strass Kahn, dalla ex ministra francese delle finanze Christine Lagarde. Chi dunque della Ue dava autorità al presidente Sarkozy e alla cancelliera Merkel di decidere sul fallimento di un paese, sulla sua eventuale uscita dall’euro, sulle condizioni per evitare l’una e l’altra catastrofe (neanche prese in considerazione dai tentativi ripetuti di poderosi trattati)?
Il potere delle grandi economie, che avevano prestato alla povera Grecia. Un potere sancito dalle agenzie di rating. Esse hanno stabilito che la Germania, con i suoi surplus, è il solo paese a tre A che può accedere al credito al tasso del 2,5%; la Francia ha le tre A in bilico e deve pagare un tasso del 3%, l’Italia ha solo due A intere e deve pagare circa il 7% mentre la Grecia, sprovvista di buoni voti, deve pagare un tasso dal 24% al 30%, i creditori essendo così poco certi delle sue possibilità di rimborso da praticare interessi che costituiscono già parziale rimborso di capitale. Sono dunque la Germania e la Francia a porsi di fronte alla Grecia, debitrice soprattutto alle loro banche, e sono loro a predisporne il piano di salvataggio: tagli ai salari, tagli alle pensioni, vendita di tutti i beni pubblici possibili, imposte leonine e ventennali controlli. In cambio, il dimezzamento del valore dei titoli greci detenuti dalle banche private.
Quando il premier greco Papandreou, che ne aveva preso atto, ha dichiarato l’intenzione di sottoporre il piano a un referendum popolare, dato l’impegno enorme che esso costituiva per ogni cittadino greco, è venuto giù il mondo. Era un tradimento dell’Europa. Quando mai il popolo greco avrebbe votato il suo strangolamento? Già i cittadini del continente bocciavano di regola gli accordi europei loro sottoposti, e i governi preferivano farli passare dalle più docili maggioranze parlamentari. In breve, Papandreou e il parlamento hanno ritirato la proposta, il governo è caduto, una coalizione di unità nazionale porterà la Grecia a rapide elezioni. Questa è la fotografia esatta della democrazia in Europa. Il prossimo paese che si troverà nella medesima situazione sarà l’Italia.
Quale Europa si troverà di fronte? La stessa. Se i mercati – cortese astrazione per non dare nome ad assai concrete proprietà – hanno avuto ragione degli stati, va da sé che hanno liquidato il peso degli schieramenti politici. Quale Italia si troverà davanti a questa Europa?
Le residue sinistre radicali sono state escluse dalla rappresentanza grazie a una legge elettorale trappola e ai loro limiti – primo di tutti non aver esaminato i cambiamenti del capitale e del lavoro, cioè le dimensioni della finanza e la frantumazione del lavoro dipendente. Gli eredi democratici dell’ex partito comunista, confusi e pentiti di essere stati tali, sono balzati a piedi uniti sulla linea liberista cui i governi di centrosinistra li avevano consegnati, senza neppur arrestarsi sul fronte keynesiano. I socialisti in Italia non esistono più. Il centro – ammesso che abbia una presenza simbolica – non è che una destra presentabile. La malattia più grave è che il paese s’è affidato, per ben tre volte dal 1994, dunque con cognizione di causa, a quel crescente margine di confusa illegalità e corruzione che è stato il berlusconismo ed è parso a metà degli italiani quasi una disinvolta furberia, giustificata dal fiasco delle sinistre. Silvio Berlusconi e i suoi partiti sono stati questa nuova veste della dominazione democristiana, cui solo la sinistra della medesima s’è rifiutata. E le inclinazioni anticostituzionali del berlusconismo hanno trovato utilmente un alleato nel populismo della Lega, che è antieuropeo perché bassamente “sovranista”. Un fascismo inquieto e in via di qualche conversione non ha avuto la tempra di reggere alla coalizione di Berlusconi.
La pulizia che, sperabilmente,verrà fatta con la partenza di Berlusconi darà spazio a una destra liberista dura, che si intenderà con quella franco-tedesca per una terapia d’urto all’enorme debito pubblico italiano, il più ingente d’Europa. Ci attendono lacrime e sangue, e ce li meritiamo.
A moderarla può essere una riflessione dei primi padri dell’Europa, che stanno esprimendo alcune preoccupazioni per una deriva che trascinerebbe, dopo i paesi della periferia, anche il centro – la ricetta greca non potendosi estendere senza indurre una recessione dalla quale nessuno potrebbe salvarsi. La urgenza di mettere un limite all’espansione e alla dominazione della finanza, attraverso una tassazione consistente delle transazioni, la possibilita della Bce di acquistare sui mercati secondari parte dei debiti pubblici riducendo subito le razzie dei mercati, una riforma fiscale di tutti i paesi del continente e l’emisissione di bond per rilanciare una crescita oggi soffocata – nella linea delle nostre proposte – allenterebbe i vincoli che la sfera politica si è imposta e ne permetterebbe un inizio di riarticolazione antiliberista. Le scadenze elettorali imminenti in Francia e in Gemania, il – per ora assai confuso – rimescolamento delle carte in Italia, aprono alcuni spiragli a una modifica che non si limiti a orazioni di duro risanamento dei bilanci, con una risorgenza delle mortificate sinistre.
Dico risorgenza perche oggi come oggi, la sola risorsa politica e morale, cui farebbe bene a collegarsi subito quel che resta di sano nel sistema rappresentativo, sono i movimenti che si estendono su scala mondiale, sfiorando persino il santuario americano di Wall Street, e per l’Italia promotori dei referendum per l’acqua e i beni comuni, ecologisti, contrari al nucleare, per le piccole opere – fra le quali il risanamento idrogeologicio del paese – e, sperabilmente, per la cultura. Nel welfare preso a fucilate, scuola e sanità , la protesta non è mai cessata e ha la sua massa critica. Queste aperture delle coscienze e della voglia di battersi dovranno anche fare un salto, moralmente doveroso, verso una solidarietà con i paesi che sono state nostre colonie e che abbiamo lasciato, o forse indotto, alla disperazione della fame, delle malattie e delle guerre tribali.
Il fatto che anche in paesi economicamente meno disastrati siamo oggi a “crescita negativa” – come si usa dire – implica ripensare che significa “crescita”, da dove possono venire occupazione, redditi, tecnologie. La perdita di lavoro e la precarietà sono malattie della società ; non solo diminuiscono le entrate pubbliche, elidendo i margini del welfare – educazione, salute, previdenza – ma scompongono ogni tensione di libertà e eguaglianza e solidarietà , i soli valori sicuri che il nosto continente ha prodotto per le sue genti.
La politica vive in questi soggetti e questi temi di fondo. Le proposte che il nostro dibattito sulla “rotta d’Europa” ha sviluppato sono una prima rivolta contro le tendenze, che possiamo senza esagerazione definire criminali, del capitale finanziario, della accumulazione sempre più ineguale, di un rigore verso i poveri che con la austerità non ha niente a che vedere. .
È un primo ed elementare cambiamento della rotta attuale europea. Si può osservare che è un programma così ragionevole da ridare il senso perduto alla parola “riformista”. Ma è una svolta in direzione di una convivenza umana meno feroce, cui ci siamo troppo facilmente rassegnati.
(2- fine. La prima parte è stata pubblicata sul manifesto di domenica. Tutto l’articolo su www.ilmanifesto.it e www.sbilanciamoci.info. Il dibattito sulla «Rotta d’Europa» verrà presto ripubblicato in e-book)
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