“Thyssen, il vertice accettò il rischio di una strage”

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TORINO – Conosceva bene i rischi mortali che sfioravano gli operai ad ogni turno di lavoro ma, nell’interesse dell’azienda, ha scelto di non fare nulla in materia di sicurezza, anzi ha addirittura bloccato un investimento già  programmato. La strage causata dall’incendio del 6 dicembre 2007 nello stabilimento Thyssen di Torino (sette operai morti: uno sul colpo, gli altri dopo strazianti agonie) era in qualche modo prevedibile. Ecco perché per i giudici della Corte d’Assise di Torino Herald Espenhahn, amministratore delegato della Thyssenkrupp è colpevole di omicidio volontario e merita una condanna a 16 anni e sei mesi di reclusione. Sono raccolte in 465 pagine le motivazioni che hanno spinto i giudici torinesi ad emettere una sentenza senza precedenti per un incidente sul lavoro e a condannare l’ad di Thyssen e gli altri cinque dirigenti (i consiglieri delegati Marco Pucci e Gerald Priegnitz, il direttore dello stabilimento torinese Raffaele Salerno, il responsabile della sicurezza Cosimo Cafueri e il responsabile dell’area tecnica Daniele Moroni) ad più di 81 anni di carcere complessivi ed quasi sette milioni di euro di risarcimento.
INFERNO QUOTIDIANO
«Dai primi mesi del 2007 per il lavoratori Thyssen dello stabilimento di Torino il dover intervenire con estintori (ma anche con manichette ad acqua) sugli incendi, su principi di incendio e su focolai, era divenuto una vera e propria “abitudine” quotidiana” scrivono i giudici ripercorrendo la storia della fabbrica torinese. Sullo sfondo c’è la decisione di chiudere e trasferire la linea 5 a Terni, lo stabilimento «madre».
ESTINTORI SCARICHI
Le testimonianze degli operai sopravvissuti raccontano come ormai «non era curata nemmeno la pulizia nello stabilimento». Il personale è ridotto all’osso, si consuma ciò che resta in magazzino. E non si ricaricano gli estintori.
LA PALLA DI FUOCO
La sera del 6 dicembre 2007 l’incendio si sviluppa nella linea 5 «ricotture e decapaggio» per nastri di acciaio inossidabile provenienti dalla laminazione a freddo. «L’innesco – scrivono i giudici – è causato dalla sfregamento del nastro contro la carpenteria con formazione di scintille…». In realtà  tutto all’interno della fabbrica congiura per una tragedia. Mancano estintori decenti, i pavimenti sono sporchi di olio combustibile, ovunque c’è carta straccia. Gli operai cercheranno di spegnere le fiamme. Antonio Boccuzzi, l’unico sopravvissuto del turno alla linea 5, cerca di farlo con una manichetta. Il «flash fire» però investe tutti. I giudici citano Roberti Testi, il medico legale, che inorridito spiega: «I corpi ustionati non sono stati esposti ad una fiamma ma in qualche modo immersi in una nube incandescente…».
TRAGEDIA ANNUNCIATA
Gli incendi era la quotidianità  alla Thyssen. Non solo a Torino. Anche a Krefeld nel giugno 2006, dove la direzione ammise che«era stato un miracolo che non ci fossero vittime». A Torino le fiamme erano già  divampate 2002, c’era già  stato un processo per quell’incendio. «Ma gli imputati – scrivono i giudici – anziché trarre dalla realtà  dei fatti l’unica conseguenza responsabile e possibile, di segnalare l’insostenibilità  della situazione, si sono prestati a “gestirla”, cercando ancora nei confronti dell’esterno (Ctr, assicurazione, vigili del fuoco, controlli in genere) di minimizzare, di sottovalutare, di cercare di occultare i reali rischi, perseguendo l’obiettivo aziendale di non dover spendere nulla a Torino perché tanto lo stabilimento veniva dismesso…». Anzi nel corso dell’inchiesta c’è stato «un grave tentativo di impedire di accertare la verità », cercando di convincere i testimoni a dare versioni «edulcorate». Per i giudici c’è «l’amara conclusione di scoprire comportamenti gravissimi tesi a vanificare l’accertamento della verità ».
ACCETTARE IL RISCHIO
Secondo i giudici Herald Espenhahn (unico ad essere accusato di omicidio volontario a differenza degli altri imputati rei di omicidio colposo), manager preparatissimo e puntiglioso al punto da «notare un bicchierino per terra», conoscendo bene le condizioni dello stabilimento ha fatto una «scelta sciagurata» decidendo di continuare la produzione come se tutto funzionasse. Azzerando con gli investimenti anche la sicurezza. Nell’interesse dell’azienda. Gli altri dirigenti dal canto loro erano convinti, secondo i giudici, che non sarebbe mai accaduto nulla.


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