by Sergio Segio | 29 Novembre 2011 7:33
C’è chi prevede una grande «implosione» di tutta la civiltà occidentale, ormai incapace di concedere alla poesia il posto che le spetta. Ho posto la domanda al mio angelo custode: «Mi hai sottratto a tanti pericoli, concesso tante gioie, inebriato così spesso di poesia. Era per impedirmi di vedere la lebbra che consuma i miei simili, il disincanto del mondo e la sua corsa all’incenerimento finale?» Non ha risposto ma ha sorriso, come fa ogni volta che mi rivolgo a lui, fin dalla mia infanzia.
Ho sempre diffidato delle previsioni millenaristiche. La natura è talmente generosa nella sua abbondanza, percepibile nella minima particella d’erba, di terra o d’acqua, così «politropa», secondo l’epiteto che Omero attribuisce a Ulisse, «ricca d’astuzie». La credo capace di eludere tutte le trappole delle sue creature. La percepisco proprio come Goethe l’ha dipinta in un testo che ho riletto tante volte e che s’intitola Natura. Ha dotato l’uomo di un prodigioso arsenale di neuroni e sinapsi, di cui è ben lontano dall’aver esaurito le risorse. Se ne è servito per costruire cattedrali e aerosol, Wall Street e missili, campi di sterminio e città fiorenti. Ciò che è in discussione è il corretto utilizzo di quell’arsenale, non la sua portata.
Durante l’ultimo quarto di secolo abbiamo assistito a un’accelerazione esponenziale e cumulativa di ogni branca della tecnica; da ciò è scaturita una mondializzazione dei problemi che causa un accesso febbrile all’angosciante distanza tra minacce e promesse. Dunque dove trovare, nel vortice che solleva ogni cosa, un messaggio di speranza per opporsi all’inquietudine? Nel contatto con coloro che ne sono i messi. Lungo la mia vita ho incontrato principalmente persone di questo tipo, uomini e donne animati da convinzioni forti, determinati a cercare e a trovare un senso al corso del tempo. Forse il mio strabismo morale non mi ha permesso di sondarne il volto oscuro. Distolgo lo sguardo da coloro che si affliggono o si rassegnano; quello che mi fanno vedere non mi interessa. È la mia malattia.
Riconosco subito quelli che proclamano la gioia di vivere, e sono loro grato. Sono tormentati quanto me, eppure quell’angoscia li porta ad accelerare la venuta di ciò che li libererà da quel sentimento. Avrei voluto fare un ritratto degli uomini e delle donne che così intensamente mi hanno offerto il loro affetto, ma ce ne sono troppi.
Alcuni anni fa feci un altro di questi incontri. Abitava a tre chilometri dalla mia casa di campagna. Si chiamava Yvette Pierpaoli. Dopo essere stata cacciata dalla sua famiglia quando aveva quattordici anni, era vissuta nella più estrema miseria. Decise di occuparsi degli altri e divenne la madre di tutti i bambini di strada, in ogni angolo del mondo. Tutto ciò che intraprendeva diventava una missione, fonte di felicità per gli altri e di gioia per sé. Le chiesi: «Dove si annidano i messaggi di speranza?» e lei mi rispose: «Nelle angosce. Il nostro secolo si conclude con una straordinaria presa di coscienza di quelle angosce. La schiacciante maggioranza degli abitanti del pianeta combatte a fianco a fianco per cercare di liberarsene. Il mio ottimismo risiede in questa constatazione».
Yvette mi ha convinto che dovevamo rallegrarci dei progressi della comunicazione e dell’informazione. Io ero contrario. Vedevo quel progresso come un effetto dell’economia di mercato senza regole. Temevo che l’espressione del pensiero personale subisse una banalizzazione attraverso il computer e l’asservimento dell’immaginario individuale alla commercializzazione dei messaggi. «No», ha replicato lei, «sono solo strumenti, la persona che se ne serve ne fa ciò che vuole. È l’uomo ad avere l’ultima parola».
Ho voluto verificare quell’affermazione guardandomi indietro, un tentativo per valutare il corso del nostro secolo. Durante i suoi primi anni di vita, la greve serenità e le nevrastenie generate dalla borghesia avrebbero potuto farne il sudario di un Occidente troppo ben nutrito. Invece da quella stessa classe sociale è nata la rivolta, ed è emerso il radicale rinnovamento del pensiero europeo: Nietzsche, Freud, Dada, il Surrealismo, Lenin.
La distruzione dell’Europa attraverso due guerre avrebbe potuto segnare la fine dei suoi valori. Ma per quanto umiliate, durante i trent’anni successivi le nazioni europee sono riuscite a rinnovare a fondo la loro posizione nello spazio mondiale. Si sono disfatte degli imperi coloniali e insieme hanno realizzato la più ingegnosa delle costruzioni, un’audace mescolanza tra il cemento economico che rende obsolete le vecchie rivalità militari e un’interpenetrazione culturale che crea un’ampia base ai loro valori comuni più importanti: la democrazia e i diritti dell’uomo.
Due potenze ideologiche totalitarie hanno minacciato quell’evoluzione. La prima, quella fascista, era destinata al fallimento dal suo stesso insostenibile antiumanismo, ma il suo passaggio attraverso il secolo, benché breve, è stato devastante. L’altro totalitarismo, quello marxista-leninista, aveva più possibilità di imporsi nel mondo, perché ha saputo fare appello a ciò che di più nobile c’è nell’uomo e per come ha entusiasmato coloro che credevano nel suo successo. Per sfuggire alla cappa di piombo con cui minacciava le società in cui si era imposto, è stata necessaria l’unione faticosa di pressioni interne ed esterne, che ancora qualche anno fa nessuno avrebbe ritenuto in grado di far crollare quella fortezza.
In quell’occasione riuscimmo a valutare l’ampliata forza di penetrazione conferita alle idee, veicoli di libertà , dai sorprendenti progressi della comunicazione, com’era stato trent’anni prima per mettere fine alle ultime guerre coloniali o imperiali, o come avvenne qualche anno dopo per eliminare l’apartheid.
Per la sua stessa rapidità , il crollo dell’ideologia comunista è stato fonte di nuove angosce. Eppure ha fatto sparire diversi spettri dal nostro campo visivo. La cooperazione internazionale organizzata, della quale si poteva contestare la pertinenza dopo il fallimento della Società delle Nazioni, con il «sistema» delle Nazioni Unite ha trovato nuove dimensioni nella storia delle civiltà umane. Quante volte in cinquant’anni le sue manchevolezze non sono state denunciate, né prevista la sua eliminazione! Tuttavia ha conservato la sua ragion d’essere, e anche coloro che le rivolgono critiche legittime sono pronti ad ammettere che non potremmo farne a meno.
Le Nazioni Unite hanno stabilito per la comunità internazionale obiettivi incontestabili: regolamento pacifico delle controversie, promozione e protezione dei diritti dell’uomo, ruoli equivalenti per uomini e donne, sviluppo equo e rispettoso dell’ambiente, lotta al denaro sporco, proveniente dalla droga e dal crimine. Questi obiettivi non sono affatto raggiunti. Ma c’è un fatto: sono stati affermati e riaffermati da tutti gli Stati, e non sono soltanto i governi a sottoscriverli in buona o in cattiva fede, ma vengono presi in considerazione da tutti gli attori della società civile. Ognuna delle calamità da combattere è oggetto dell’attenzione internazionale, delle associazioni cittadine, delle fondazioni e dei movimenti militanti, collegati sempre meglio in reti mondiali.
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