Perché dobbiamo guardare lontano

by Sergio Segio | 15 Novembre 2011 9:11

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Un destino parallelo (pacifico grazie al cielo e quasi comico) a quello di Gheddafi, spinto nel tubo fatale da un bombardamento della Nato. Questo itinerario ha effetti ingenti. Per esempio, il referendum sottraeva l’acqua, e per analogia altri beni essenziali, alla privatizzazione, mentre la Bce detta la privatizzazione (più pudicamente: liberalizzazione) dei servizi municipali. Si capisce dunque che la festa per il commiato di Berlusconi e della sua corte sia turbata da una sensazione di espropriazione delle speranze e delle ragioni dei movimenti che hanno rianimato il paesaggio sociale e civile italiano.
Penso che occorra guardare lontano. Rovesciando il motto di Keynes, nel breve periodo siamo tutti morti. Il breve periodo, salvo che si auspichi, per demagogia o irresponsabilità , l’uscita dall’euro, è condizionato da un’emergenza in cui si rincorrono realtà  e percezione, e al condizionamento non toglie nulla la denuncia delle responsabilità  ultime e prossime. Cioè, di una macchina rotolante che bisognerebbe chiamare capitalismo reale, a somiglianza di quel socialismo reale di un tempo, che serviva a illudere della sopravvivenza di un socialismo ideale.
Ora ci si vuole illudere che esista il capitalismo ideale – il capitalismo senza i derivati e le agenzie di rating. Discussione antica, almeno dal Capitale finanziario di Hilferding, 1910; solo che allora il problema era se l’imperialismo e la guerra fossero una degenerazione del capitalismo, o il suo inevitabile inveramento.
Oggi vale più la pena di chiedersi se il nome di capitalismo non pretenda di razionalizzare una macchina ingovernata e largamente ingovernabile. Che è una ragione in più per guardarsi da una visione paranoica del mondo, in cui pescecani affaristi speculatori, affannati ad azzannare i pesci piccoli e boccheggianti tirati fuor d’acqua, sembrino guidarlo loro, il peschereccio, che invece sta andando allegramente alla deriva.
La seduzione paranoica, tentazione di tutti i movimenti nuovi, è rinfocolata da vecchi luoghi comuni rammendati: è la volta della Goldman Sachs, di cui Draghi fu dirigente e Monti consigliere (come Prodi, del resto), sicché tutti i conti tornano.
«La cosa che spicca nel curriculum di Monti è il suo ruolo della Goldman Sachs, un covo di criminali veri»; così, dal canto suo, il direttore del Giornale, Sallusti. Da Santoro il sondaggio Facebook dava il 75 per cento degli spettatori favorevole a Monti; un blogger ha spiegato come Monti sia un emissario della Trilateral, della Goldman e del club Bilderberg, e il favore è sceso in diretta al 30 per cento. Ora, si può rimanere fedeli, con cautela, alla domanda di Brecht: “Che cos’è una rapina in banca rispetto alla fondazione di una banca?”, e tuttavia evitare di scambiare uno stimato professore europeista per un agente dell’imperialismo finanziario che finalmente presenta a viso scoperto il conto al popolo italiano, al posto del burattino miliardario che scartava verso il Kazakistan.
Ho cercato Goldman Sachs su Wikipedia, e ne sono stato premiato dalla citazione di J. K. Galbraith a proposito dell’autunno del 1929: “Fu forse la prima occasione in cui gli uomini riuscirono a truffare se stessi”. Dopo di allora, hanno insistito parecchio, dalla Lehman a Madoff, ai nostri. Il capitalismo, grossi banchieri e madornali bonus compresi, lavora sodo a truffare se stesso. E i tentativi affannosi di riparare hanno gli stessi autori e gli stessi meccanismi che hanno portato ai disastri. Ma anche durante la piena si usa il proprio secchiello, mentre ci si prepara a restituire ai fiumi il loro corso.
Il governo Monti deciderà  anche misure meritevoli dell’opposizione sociale più libera e determinata. Ma fra l’autonomia della dialettica sociale e politica e l’additare Mario Monti agli studenti o agli indignati o agli occupy-Wall-Street come il volto pulitamente demoniaco del potere finanziario corre una differenza essenziale. Chi sente e pensa (io fra questi) che occorra una conversione radicale dei modi di produrre e di consumare e delle abitudini di vita, sa di non poter contare su una palingenesi. Può darsi che i dirigenti del Pd preferiscano, “sotto sotto”, che ad applicare le direttive della Bce, la quale soppianta il governo federale europeo che manca, e del duo Sarkozy-Merkel, il quale lo usurpa, siano Monti e la sua squadra di banchieri rettori generali e monsignori: è un fatto che anche i migliori aspiranti a un altro mondo possibile si spaventerebbero dell’eventualità  che cadesse loro in braccio il compito di governarne la contingenza attuale. Ma allora non è mai il tempo per fare le cose giuste? Lo è sempre, e moltissime cose giuste vengono fatte ogni giorno, in una quantità  di posti in cui si agisce vicino e si guarda lontano. Si sente ripetere che la distinzione fra destra e sinistra è superata. Avrebbe potuto esserlo, quando si smise di fare della lotta di classe la chiave unica di interpretazione della storia, e intelligenza femminista ed ecologista e non violenta costrinsero a mettere in rapporto le lotte fra umani con quelle degli umani per la salvezza della terra, l’appello leopardiano della Ginestra. Dopo di allora, la sinistra è andata in crisi, la destra no: semplicemente, non ha avuto più limiti. La sinistra era il suo limite, e la contraffazione della sinistra, il socialismo reale, il suo nemico. Ora si scopriva senza nemico e senza limite. La lotta di classe si castigò e fu castigata, e i privilegi della ricchezza e del potere si esasperarono fino a ridicolizzare e umiliare libertà  dei mercati e delle persone.
Ma la conversione cui è giusto aspirare non può ignorare le mediazioni politiche e istituzionali. Il vero senso della sentenza sulla fine della destra e della sinistra, sta nella battuta dilagante, “sono tutti uguali”. La quale coglie un difetto vero di coerenza e limpidezza nella politica che cerca di rappresentare la sinistra, ma la rovescia fino all’assurdo. Non sono uguali un ministro che voglia infilarmi di forza una sonda nella pancia, e uno che mi lasci vivere e morire a modo mio. Ci sono forze politiche (ed economiche, sociali, intellettuali) che non sono in grado nemmeno di capire il cambiamento cui tanta parte del mondo aspira. Ce ne sono che fanno di tutto per soffocarlo. Ce ne sono che possono capirlo e aprirglisi, in quale misura dipende da loro e dagli altri. La politica della piccola rendita demagogica ha per motto quel “sono tutti uguali”. Orfana di Berlusconi, si prepara già  a mettere alla gogna qualunque opposizione le paia non abbastanza inflessibile. Le riuscì a meraviglia col governo Prodi. Le riuscirà  facile con un Pd che debba stare in equilibrio fra il governo del debito e le elezioni future. Sappia, chi davvero ha in animo un altro mondo possibile, che “le piccole differenze” nella politica e nelle istituzioni sono decisive soprattutto per lui, che deve farci leva, e impegnarsi a renderle più grandi ed efficaci. A non compiacersi di moltiplicare i nemici, e a non rinunciare alla propria forza: avere ragione, e volerne persuadere.

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