Pdl, scontro sulle larghe intese
ROMA – Il via libera al governo Monti è rinviato al «conclave» del Pdl che Berlusconi ha convocato per domani pomeriggio. Perché l’ufficio di presidenza del partito andato avanti per due ore, tra scintille e scontri aperti ieri pomeriggio, serve solo a fotografare una spaccatura più profonda del previsto. Al termine, il Cavaliere deve richiamare all’ordine: «Se non sosteniamo questo esecutivo usciamo sconfitti due volte». In serata, davanti ai senatori Pdl, prende atto però che in molti vogliono il sostegno esterno.
Davanti alle telecamere, il segretario Alfano proverà a smussare: «La nostra posizione è elezioni subito, ma decide il Colle. Non siamo spaccati, stiamo solo discutendo. Faremo un nuovo ufficio di presidenza sabato», alla vigilia delle consultazioni del Quirinale. Ma è già un segnale che lascia presagire l’approdo finale. Dato che quello stesso organismo dirigente, ricorda proprio il segretario Pdl, la settimana scorsa aveva sancito la linea del «governo Berlusconi o voto anticipato». La nuova convocazione servirà proprio a rettificarla. La giornata era cominciata col sottosegretario Carlo Giovanardi che definiva il governo tecnico «un colpo di Stato», parlando di «parlamentari pronti a dimettersi». Per proseguire col ministro Rotondi che si diceva pronto a farlo, contro il «golpe», la «congiura».
La sacca di resistenza pidiellina all’esecutivo Monti conta 100-120 parlamentari, tra Camera e Senato. Guidata dai colonnelli ex An, ma ne fanno parte appunto gli ex dc alla Rotondi e Giovanardi e gli ex socialisti come Maurizio Sacconi. Agguerriti pure gli ex Udc che il 14 dicembre hanno ordito lo strappo sotto la guida di Saverio Romano. Su tutti loro ora lo spettro dell’irrilevanza parlamentare, nel mare magnum di una maggioranza che vada dal Pd al Pdl al Terzo polo. Ma chi sta dando davvero battaglia sono i ministri Ignazio La Russa, Altero Matteoli e Giorgia Meloni. Nel lungo vertice di Palazzo Grazioli a metà giornata prendono la parola tutti e tre, alzano la voce, non ci stanno: «Possiamo ancora vincere le elezioni» è la tesi ribadita a più riprese. Matteoli alza tiro e ventila come una minaccia la trentina di parlamentari pronti a seguirlo. Il punto massimo al quale possono spingersi, sostengono, è l’astensione. Ma se ci saranno dentro dei politici, allora sarà necessario «dare una rappresentanza adeguata anche alla nostra area» fa presente il ministro della Difesa: «Ma non più col criterio del 70-30, col tesseramento adesso pesiamo quanto l’area forzista». Insomma, se dovessero davvero entrare Frattini e Fitto (le due pedine Pdl che circolano con maggiore insistenza) allora due toccherebbero anche a loro. Sacconi ne fa invece un problema ideologico: «Il governo Monti sarebbe di sinistra, non possiamo permetterlo». È una mezza insurrezione contro la linea che, gioco forza, finisce con mettere nel mirino il segretario. Sull’altro fronte, con Alfano e in sostegno della soluzione Monti, si schierano a spada tratta Frattini, Lupi, Quagliariello, a sorpresa Cicchitto. Claudio Scajola fa una breve comparsa ma è su quella linea, già ribadita poche ore prima nel faccia a faccia avuto con Berlusconi a Grazioli. Da Milano, anche Formigoni si schiera per «un governo largo fino al termine della legislatura». La strada sembra tracciata, anche se resta sullo sfondo il macigno Lega. A questo punto, la costruzione di un nuovo gruppo degli ex Pdl fuoriusciti rallenta. Destro, Gava, Pittelli e Antonione lasciano il partito e si iscrivono al Misto. Con Mannino, Sardelli, Milo e Versace, in otto, daranno intanto vita intanto a una componente «autonoma». Tutti incontrano in mattinata Fini e Casini: incassano fiducia e sostegno. Gianfranco Micciché viene ricevuto dal leader Udc, offre i suoi 8 del Grande Sud. Casini glissa, per ora preferisce tenere tutto in stand-by.
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