Occhio al sacchetto: bio o falsi bio?

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La legge prevede che le normali buste di plastica tuttora in diffusione possano essere utilizzate, ma non vendute, fino al giugno 2011, dopo subentrerà  tassativamente quella biodegradabile. Supermercati e negozi si sono riempiti di alternative: tutte presentate come ecologiche e amiche dell’ambiente, ma non sempre è vero denunciano da alcuni mesi le associazioni ambientaliste.

Insieme alle buste biodegradabili recanti la scritta a norma con la direttiva 94/62 Ce, infatti, troviamo anche quelle che utilizzano la tecnologia Ecm, con il riferimento alla normativa del 1992. In teoria, tutte sono biodegradabili e rispettano l’ambiente, ma la legge in vigore vuole ora sacchetti ricavati da soli prodotti naturali, tanto che la stessa Autorità  Garante della Concorrenza e del Mercato in gennaio aveva bollato come pubblicità  ingannevole quella con la quale le buste di plastica tradizionale, con l’aggiunta di additivi per facilitarne la disgregazione (Ecm appunto), venivano presentate come biodegradabili e compostabili.

A fare ricorso al Garante erano state Legambiente e Novamont, la società  che ha brevettato la Mater B, la plastica biodegradabile ottenuta con il mais. Per Legambiente i sacchetti fatti con la vecchia plastica, sia pure corretta con gli additivi per l’autodistruzione, non potevano essere considerati biodegradabili e adatti alla trasformazione in compost, cioè nel terriccio fertile ricavato dalla parte organica dei rifiuti. Il Garante con il parere dell’Istituto Superiore di Sanità  ha in effetti rilevato tempi di degrado non compatibili con il corretto trattamento dei rifiuti organici e le cui conseguenze potrebbero essere molto gravi per il corretto ciclo dei rifiuti differenziati. “Non possiamo permettere l’ingresso di altri materiali non adatti perché la situazione è insostenibile”, ha spiegato David Newman, direttore generale del Consorzio Italiano Compostatori. “In mezzo al materiale organico che deve trasformarsi in compost troviamo ogni anno 150 mila tonnellate di plastica. Dobbiamo toglierle e portarle in discarica e tutto questo costa ai contribuenti 30 milioni di euro l’anno”.

Il caso sembrava chiuso con quello che Stefano Ciafani, responsabile scientifico di Legambiente definiva “un segnale forte delle autorità  che servirà  a rimettere ordine in un settore che produce un micidiale impatto ambientale”. Ma purtroppo il pericolo dei “falsi sacchetti compostabili” non sembra ancora svanito. Quibio, sito web impegnato da dieci anni nella diffusione di prodotti biodegradabili, denuncia in questi giorni il boom sul mercato di “biosacchetti” contenenti una percentuale di plastica, quindi non biodegradabili al 100 %.

“Circolano moltissime buste per nulla o non del tutto compostabili, e in tanti se ne stanno accorgendo. È necessario sollevare nuovamente il problema” hanno detto i fondatori cagliaritani di Quibio, Giuseppe Brau e Maria Grazia Sanna. “Ad inizio anno avevamo salutato con grande soddisfazione l’entrata in vigore dell’obbligo all’utilizzo dei biosacchetti. La notizia era ed è ancora molto positiva, prima di tutto per l’ambiente: grazie a questa norma ogni giorno vengono prodotte centinaia di migliaia di tonnellate di plastica in meno” ha dichiarato Brau. “Allo stesso tempo avevamo suonato un campanello dall’allarme relativo al rischio di speculazione sul possibile business che si sarebbe innescato, ossia alla possibile immissione sul mercato di biosacchetti contenenti una percentuale di plastica tradizionale per aumentare i guadagni. Con enorme dispiacere, dobbiamo constatare che ciò è avvenuto, e la rabbia che sta montando tra i consumatori dimostra che molti se ne stanno accorgendo”.

Di fatto per tenere bassi i costi di produzione del sacchetto e speculare sulla loro vendita, molti biosacchetti vengono tagliati con una percentuale di plastica non biodegradabile all’interno. “È arrivato il momento di sollevare il problema, per evitare che ciò che abbiamo fatto uscire dalla porta non ci rientri dalla finestra. Da una nostra indagine, infatti, solo la grande distribuzione e pochi esercenti minori stanno andando nella giusta direzione, utilizzando biosacchetti che rispettano la legge in vigore, ovvero la norma 13432 Ok Compost” ha concluso Brau. Un dato che se verificato sarebbe allarmante visto che in Italia consumiamo circa 20 miliardi di buste all’anno, un quinto di quelle usate in tutta Europa. Le utilizziamo solo per poche ore, ma restano nell’ambiente anche per secoli, da un minimo di 15 anni a un massimo di 1000 anni. Secondo l’Agenzia Europea per l’Ambiente: “gli shoppers si frantumano in minuscoli pezzi, ma non si distruggono e formano vere e proprie isole come quella a 800 miglia a nord delle Hawaii, nell’Oceano Pacifico, il Pacific Vortex, grande centinaia di chilometri quadrati”.

Nel macro business del finto biodegradabile pare che gli interessi siano oggi molteplici. Alle spalle della stazione centrale di Napoli, solo per fare un esempio, sono in molti a vendere pacchi di sacchetti spacciati per ecologici, molto simili a quelli realizzati con i derivati del mais e altri prodotti naturali. “Sono per lo più commercianti cinesi a scatenare il boom e gli acquirenti sono tantissimi: dai 12 euro di un pacco di buste ecologiche e a norma di legge, si passa infatti agli 8 euro dei sacchetti tarocchi completamente fuori norma”, anche se viene riprodotta la scritta riciclabile, si legge su un quotidiano on line locale.

Occhio al sacchetto quindi. Bioplastiche o plastiche biodegradabili e compostabili sono solo quelle che rispettano tutti i criteri delle norme scientificamente riconosciute per la biodegradabilità  e la compostabilità  dei prodotti plastici (norme EN 13432 per l’Europa, ASTM D6400 per gli USA) come il Mater B. Con l’ottenimento della certificazione di compostabilità  si ha diritto all’impiego dei marchi, OK Compost e/o Compostable Logo che possono essere impressi sulle confezioni dei granuli e sulla documentazione pubblicitaria e tecnica che li accompagna. Mai come oggi, anche dal nostro sacchetto dipende la qualità  del nostro ecosistema.


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