Obama, la sfida nel Pacifico «Ora un mercato comune»

by Sergio Segio | 14 Novembre 2011 7:43

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NEW YORK — A sorpresa arriva un patto di libero scambio, la «Trans Pacific Partnership» tra le due sponde del Pacifico, negoziato dagli Usa con Paesi latinoamericani (Cile e Perù), l’Australia e nazioni asiatiche come Vietnam, Singapore e Malesia, ma non con Cina e Giappone. Alla riunione Apec di Honolulu, il vertice dei 21 Paesi che si affacciano sull’Oceano che bagna Asia e Americhe, è questa la novità  principale. E non è una novità  da poco perché segna un cambio di passo degli Usa: Washington ora non solo contrasta l’espansionismo cinese in Estremo Oriente promettendo agli alleati il rafforzamento del suo dispositivo militare nell’area, ma cerca per la prima volta di reagire allo «sbarco» di Pechino in America Latina, quella che un tempo passava per il suo «cortile di casa».
Da anni i cinesi hanno cominciato a tessere una fitta rete di accordi col Brasile e gli altri Paesi sudamericani. Intese che tagliano fuori gli Usa e, sempre più spesso, non hanno bisogno di passare nemmeno da Wall Street per le relative transazioni finanziarie. Ma fare affari con la Cina ha anche le sue spine. Chi vuole esportare sul loro mercato incontra mille difficoltà . Lanciando l’accordo di libero scambio con un gruppo di partner delle due sponde del Pacifico, Washington dimostra di non voler reagire alle difficoltà  economiche interne e all’alta disoccupazione con misure protezionistiche e al tempo stesso cerca di far apparire come un bluff le aperture commerciali cinesi agli altri Paesi emergenti.
Pechino non l’ha presa bene: i suoi funzionari si sono lamentati per non essere stati invitati al negoziato (il Giappone sta, invece, frettolosamente tentando di salire sul carro della «partnership»). E sabato il primo incontro bilaterale tra Barack Obama e il presidente cinese Hu Jintao alle Hawaii non è stato certo un successo. Le promesse di ulteriore rivalutazione dello yuan che lo stesso governo asiatico aveva voluto inserire nel comunicato finale del G20 di Cannes vengono ora accantonate. A Obama che, secondo i funzionari della Casa Bianca, ha espresso «con un linguaggio molto diretto frustrazione e impazienza per la lentezza con la quale la Cina corregge le sue scelte economiche e monetarie», Hu ha risposto che il problema dell’economia Usa non è la quotazione della moneta cinese. Se vuole riprendere a crescere, dice Pechino, l’America dovrebbe togliere i vincoli alle esportazioni in Cina delle tecnologie Usa considerate strategiche e agevolare gli investimenti del gigante asiatico in territorio americano.
Pur senza la cordialità  della visita di Hu a Washington, dieci mesi fa, formalmente il dialogo tra i due leader (che si sono incontrati di nuovo ieri notte, ora italiana) è stato improntato a una volontà  di collaborazione. Ma se al vertice i Paesi dell’Apec riusciranno a trovare un denominatore comune, sarà  quello dell’esigenza di mettersi al riparo dalle turbolenze economiche che un aggravamento della crisi dell’Europa potrebbe trasmettere fin sulle rive del Pacifico. E qui l’unico «firewall» che i Paesi dell’area possono costruire per proteggersi dal contagio è quello di una maggior dinamica della crescita e degli scambi economici per compensare eventuali impulsi recessivi provenienti dall’area Ue.
Ma anche sui modi di raggiungere questo obiettivo le opinioni non sono convergenti. Le banche centrali di alcuni Paesi asiatici hanno ancora margini per stimolare l’economia con nuove riduzioni del costo del denaro, ma la Cina sembra poco propensa ad espandere la domanda interna con un altro massiccio intervento di stimolo come quello varato nel 2009.
Le cattive notizie del muro contro muro Cina-Usa sono, però, soprattutto quelle di natura monetaria: a Honolulu il ministro del Commercio cinese ha detto al suo omologo americano John Bryston di considerare l’attuale rapporto dollaro-yuan sostanzialmente corretto. Insomma, l’ulteriore revisione al rialzo del cambio promessa al G20 si farà  attendere. Anche perché gli squilibri che la Cina può curare con la rivalutazione (alta inflazione e attivo commerciale troppo elevato), sembrano già  in fase di ridimensionamento: a ottobre il ritmo d’incremento dei prezzi in Cina è sceso al 5,5 per cento mentre il surplus commerciale, che rimane enorme, quest’anno si fermerà  a quota 160 miliardi di dollari rispetto ai 183 del 2010.
Poi, sempre sul fronte monetario, da Pechino arriva un altro schiaffo: Dagong, l’agenzia di rating cinese che nell’estate scorsa ha già  abbassato il voto del credito Usa allineandolo a quello di Paesi come Russia e Sud Africa, ha minacciato un ulteriore downgrading se la Federal Reserve intraprenderà  una nuova fase di espansione monetaria per sostenere l’economia, esponendosi sui mercati con un’altra massiccia ondata di acquisti di titoli obbligazionari.

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