Obama e lo spettro di una Lehman mondiale “Subito liquidità  illimitata dalla Bce”

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CHE la Bce intervenga a offrire liquidità  illimitata, per garantire le banche europee più fragili, onde evitare un crac che sarebbe «una bancarotta Lehman all’ennesima potenza».
È una raccomandazione che oggi Barack Obama intende consegnare ai rappresentanti dell’Unione europea giunti a Washington. Lo farà  con discrezione, per rispetto dell’autonomia della banca centrale. Ma difficilmente l’eurozona otterrà  nuovi aiuti dal Fondo monetario internazionale (di cui gli Stati Uniti sono l’azionista di maggioranza relativa) se non cambia qualcosa nel ruolo della Bce. Arginare il credit crunch, lo schiacciamento del credito bancario, per Obama è una priorità  da perseguire con la massima urgenza. Lui ricorda bene il pericolo scampato nel 2008 in America: fu il suo battesimo di fuoco, quella bancarotta Lehman, in seguito alla quale le banche smisero di farsi credito tra loro, rischiando così di asfissiare l’economia reale.
Obama era ancora un semplice candidato alla Casa Bianca quando si prese la responsabilità  di appoggiare il piano Paulson, 700 miliardi di dollari per creare un cordone sanitario attorno alle banche. Ora è convinto che i leader europei devono osare altrettanto. Lo farà  capire stamane a Herman van Rompuy e Jose Barroso, accogliendoli alla Casa Bianca per il vertice annuo Usa-Ue. Userà  i suoi due ospiti come “messaggeri”, perché riferiscano a chi di dovere: Angela Merkel, l’unica che può sbloccare l’impasse europea. Obama teme che la Merkel e gli altri leader non abbiano ancora colto tutta la gravità  della situazione, ha l’impressione che sottovalutino la velocità  con cui una crisi di sfiducia dei mercati può precipitare verso esiti irrimediabili. Gli eventi delle due ultime settimane lo hanno allarmato. Obama aveva salutato – dal vertice Apec di Honolulu, il 12 novembre – i «positivi sviluppi in Italia e in Grecia», l’avvento dei governi Monti e Papademos. La settimana scorsa ha osservato con costernazione le nuove convulsioni di sfiducia: i tassi record sui bond italiani e spagnoli, il downgrading del Belgio, i tremori che lambiscono Austria, Francia, la stessa Germania. I progetti di Europa a due velocità , revisioni dei trattati, sanzioni fiscali automatiche sui paesi indisciplinati, tutto questo a Washington appare irrilevante nell’immediato: le risposte vanno date subito, entro pochi giorni o al massimo settimane, non mesi o anni. Ora Obama ha un potere contrattuale per far leva sulla Merkel. E’ proprio la Germania ad avere chiamato indirettamente in gioco il presidente americano. Venerdì a Berlino i tre ministri delle Finanze tedesco olandese e finlandese (guarda caso i tre paesi che la speculazione vede come candidati a una “mini-unione” dei forti) hanno firmato un comunicato congiunto per chiedere al Fmi di giocare un ruolo più importante nella costruzione della «muraglia anti-incendio» che deve impedire la disgregazione dell’euro. E’ l’ammissione implicita che il fondo salva-Stati dell’eurozona (Efsf) non basta già  più. Ma per mettere in campo la potenza di fuoco del Fmi è indispensabile il via libera degli Stati Uniti. Un passo non facile, in piena campagna elettorale: Obama dovrà  spiegare ai suoi contribuenti perché l’America deve contribuire a finanziare il salvataggio dell’euro, mentre in casa propria è l’ora dei tagli di bilancio. Obama ha cominciato a preparare il terreno, dichiarando che «non ci sarà  crescita negli Stati Uniti e nell’economia globale, finché l’eurozona non avrà  risolto i suoi problemi». L’emergenza euro dunque tocca gli interessi vitali degli Stati Uniti, minacciando la ripresa. Ma cosa chiederebbe Washington agli europei, come contropartita per un via libera a nuovi aiuti del Fmi? Il ruolo della Bce è uno degli aspetti cruciali per Obama: nella banca centrale lui vede un possibile argine contro i default a catena che possono travolgere gli istituti di credito europei. Per vincere le resistenze tedesche, gli americani agitano scenari da Apocalisse: i crac bancari porterebbero a una deflagrazione sistemica, una nuova paralisi dei mercati finanziari perfino peggiore di quella avvenuta nel 2008. L’intero commercio mondiale subirebbe un colpo durissimo. Non parliamo poi della disgregazione dell’euro: i grandi studi legali di New York e Londra hanno già  cominciato a “simulare” il boom del contenzioso giuridico che si aprirebbe all’indomani dell’uscita di questo o quel paese, per stabilire come andrebbero convertiti tutti i contratti denominati in euro. Sarebbe la fine del mercato unico europeo, un ritorno delle restrizioni valutarie, un balzo indietro con effetti disastrosi per i maggiori partner commerciali dell’Europa, America e Cina. Ma non è solo di finanza che Obama vuol parlare con i rappresentanti Ue. Ha un messaggio che riguarda la crescita: non c’è risanamento possibile dei conti pubblici, se si ricade nella recessione. Quando l’economia decresce, l’unico valore che sale sono i debiti. La Casa Bianca addita l’esempio dell’Irlanda: virtuosa nell’applicare le ricette rigoriste dettate da Berlino e Bruxelles, ha visto la disoccupazione salire al 14%, e i tassi sui suoi bond sono tuttora all’8%, superiori a quelli italiani.


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