Naufraga il «supercomitato» sul deficit
NEW YORK — «Mostreremo agli americani che il Congresso è ancora capace, nei momenti cruciali, di trovare l’unità : di risolvere un problema drammatico superando le divisioni politiche», aveva detto la senatrice democratica Patty Murray quando, nell’agosto scorso, fu formata la Supercommissione di Camera e Senato incaricata di eliminare almeno 1.200 miliardi di dollari di debiti dal bilancio federale. Ma il tempo sta scadendo e la Supercommissione — dichiarano all’unisono gli analisti parlamentari — ha prodotto solo un «superfallimento».
Un esito che ha già fatto precipitare a livelli mai visti prima i livelli d’impopolarità del Congresso (a dichiarare di fidarsi del Parlamento che hanno eletto sono rimasti appena 9 americani su 100) e che sta già producendo poderose onde d’urto in campo economico. Ieri i mercati sono andati a picco nell’area Ue come negli Stati Uniti (Wall Street ha perso il 2,1%, comunque meno delle piazze europee) a causa non solo della crisi dell’Eurozona, ma anche per la sensazione d’ingovernabilità del debito pubblico Usa. Intanto si diffonde con la rapidità di un incendio il timore di un nuovo possibile «downgrading» degli Usa da parte delle agenzie di rating. A cominciare da Standard & Poor’s che, quando tolse la «tripla A» a Washington nell’agosto scorso, avvertì che una seconda bocciatura avrebbe potuto arrivare anche a breve scadenza, se il sistema politico non fosse riuscito ad affrontare subito e in modo efficace il problema del debito federale.
Congresso in stallo e Casa Bianca con le mani legate: è questo il risultato del fallimento di ogni tentativo di compromesso certificato ieri sera dagli stessi parlamentari. Appena hanno gettato la spugna, Obama ha rotto un lungo silenzio per esprimere il suo rammarico e avvertire Camera e Senato che qualunque tentativo di disinnescare il meccanismo dei tagli automatici di spesa introdotto tre mesi fa dallo stesso Congresso si scontrerà col suo veto. In teoria la Supercommissione paritetica (sei democratici e sei repubblicani) avrebbe avuto tempo per deliberare fino a mercoledì sera, vigilia della Festa del Ringraziamento. Per la legge americana, però, un atto destinato ad avere forza di legge (come sarebbe la deliberazione finale della Supercommissione) deve essere depositato almeno 48 ore prima del voto: quella di ieri sera era, dunque, la scadenza ultima.
Le ultime ore sono state caratterizzate da un tentativo «in extremis» del senatore democratico John Kerry di riformulare la sua proposta di aumento del prelievo fiscale in modo da renderla meno indigesta per il fronte conservatore. Ma i repubblicani hanno liquidato l’iniziativa come un giochetto di bassa lega.
A questo punto il contenimento dei deficit sarà affidato, almeno in teoria, a tagli automatici di spesa già previsti dalla stessa legge che ha creato la Supercommissione. Tagli indiscriminati per 1.200 miliardi destinati a colpire soprattutto il Pentagono che si vedrà portar via, negli anni, ben 600 miliardi. «Un’amputazione che mette in pericolo la sicurezza degli Stati Uniti» aveva strillato nei giorni scorsi il ministro della Difesa, Leon Panetta. Una norma di «macelleria contabile» appositamente concepita in questo modo dal Congresso per costringere i parlamentari della Commissione a trovare comunque un accordo senza arroccarsi dietro le rispettive barricate ideologiche. Invece i veti incrociati hanno prevalso anche stavolta. E all’improvviso si scopre che quella dei tagli automatici non era esattamente una minaccia ultimativa: quelle «sforbiciate», infatti, scatteranno solo con l’esercizio fiscale 2013, che inizierà nell’autunno del prossimo anno. Insomma, c’è ancora tempo per disinnescare la mina dei tagli (mentre, intanto, il debito continuerà pericolosamente a crescere), anche se, con le elezioni presidenziali alle porte e tre tentativi di accordo «bipartisan» già falliti in pochi mesi, una ripresa del dialogo a breve è quanto mai improbabile.
Dopo aver inviato a settembre alla Supercommissione una sua proposta di contenimento del debito, nelle ultime settimane il presidente americano ha ostentato distacco dal Congresso e dal negoziato in corso. Un silenzio rotto solo ieri sera, a fallimento ormai consumato, e un distacco reso ancora più visibile dal suo lungo viaggio nel Pacifico e in Asia per una serie di vertici internazionali. Ben dieci giorni: Obama è tornato a Washington solo ieri, a fallimento ormai maturato.
Per i repubblicani avrebbe sabotato, con la sua lontananza, il negoziato, ma per la Casa Bianca è facile dimostrare gli impegni internazionali (vertici con decine di capi di Stato, compresi quelli di Cina, Russia e Giappone) erano stati presi prima della nascita della Supercommissione. E comunque, dopo il fallimento del precedente negoziato estivo tra il presidente Usa e il capo della maggioranza repubblicana alla Camera, John Boehner, molti parlamentari — tanto repubblicani quanto democratici — avevano invitato la Casa Bianca a smetterla con le sue ingombranti mediazioni, lasciando fare il Congresso.
Obama li ha presi in parola, ma i 12 commissari si sono subito arenati sulle vecchie contrapposizioni in materia di tasse. I repubblicani, contrari a qualunque incremento del gettito, hanno chiesto addirittura un’ulteriore proroga degli sgravi fiscali dell’era Bush. I democratici, a quel punto, si sono a loro volta arroccati sul «no» ai tagli della spesa sociale, dagli assegni per i poveri alla sanità pubblica per anziani e indigenti.
Alcuni sostengono che, facendo ricadere tutte le responsabilità sul Congresso, Obama ha la possibilità di recuperare un pò di credibilità con gli elettori. Ma il «commander-in-chief» è pur sempre lui, e l’incapacità del Parlamento di affrontare problemi economici destinati, comunque, ad aggravarsi, rischia di travolgere anche la credibilità della Casa Bianca.
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