Napolitano attende un «segnale chiaro»

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ROMA — «Napolitano scioglie le Camere». Così ripetono gli strilloni davanti a Palazzo Chigi, mentre recitano il titolo di un’edizione straordinaria della Gazzetta Ufficiale. Ma è un irriverente falso della rivista satirica il Male, con cui Vauro (Senesi) dà  voce ai sogni di una certa parte delle opposizioni e, stando a quando succede in Borsa, forse pure del mondo finanziario.
Un pio desiderio. Almeno fino a quando la crisi non sarà  formalizzata con le dimissioni del premier e neanche allora si sarebbe comunque sicuri che la legislatura sia finita. Perché, prima di congedare le assemblee, il Quirinale potrebbe valutare la praticabilità  di un governo alternativo. Bisogna insomma stare a vedere ancora un po’ per capire davvero ciò che ci aspetta. Ed è quello che lo stesso capo dello Stato fa. Sorvegliando la maggioranza, l’opposizione e i mercati. Preparandosi a monitorare l’attività  del Parlamento e aspettando dalla assemblea «un segnale chiaro» e «atti precisi» che gli consentano di «valutare concretamente l’evoluzione del quadro politico-istituzionale» e, nel caso, dispiegare le proprie prerogative.
Tra annunci clamorosi e raggelanti smentite, richieste a Berlusconi di passi indietro (o laterali, come dice la Lega) e nuove diserzioni nel Pdl, quella di ieri è stata una giornata di estrema incertezza. Di straordinario caos.
Il presidente della Repubblica l’ha seguita con la preoccupazione di chi sa che sarà  chiamato a mettere in sicurezza il Paese molto presto. Prestissimo. Magari già  oggi, con il test di Montecitorio sul rendiconto generale dello Stato. Ovviamente si dà  per certo che, dopo l’infortunio di tre settimane fa, stavolta passi: l’ipotesi opposta sarebbe una drammatica dimostrazione di irresponsabilità . I modi dell’approvazione, però, avranno il vantaggio di permettere una verifica della tenuta del centrodestra. Se infatti, tra astensioni e assenze calcolate, risultasse evidente che l’esecutivo è sotto la quota di sopravvivenza (ad esempio sotto il numero di 300 deputati, secondo la profezia di qualcuno), si aprirebbe un grande problema politico. Davanti al quale c’è chi si domanda se Napolitano dovrebbe convocare il Cavaliere sul Colle e invitarlo a rimettere il mandato.
Da un punto di vista strettamente costituzionale, no. La dottrina non lo prevede. La prassi invece non esclude che il capo dello Stato, in una simile eventualità , senta informalmente il premier (ma senza alcuna intimatio, usando solo la persuasione morale) e lo interroghi su come pensa di andare avanti e soprattutto di garantire un’efficace azione di governo. La risposta la si può intuire, Berlusconi l’ha ripetuta fino alla nausea, e anche ieri: non lascio, recupererò gli scontenti e avrò i numeri, e lo dimostrerò fra pochi giorni al Senato, dove mi farò votare la fiducia sul maxi-emendamento. Questo dovrebbe/potrebbe dire. E si sa che a Palazzo Madama, diversamente dalla Camera, la sua maggioranza è per il momento più salda.
Ci si possono dunque aspettare altri giorni di passione, negoziati e prove di forza, prima del fatidico passo d’addio. Giorni al termine dei quali il Cavaliere potrebbe azzardare una mossa spregiudicata: far passare quel maxi-emendamento al Senato e, senza aspettare il vaglio di Montecitorio, presentarsi subito dopo dimissionario al Quirinale. In questa maniera potrebbe dimostrare di non essere stato sfiduciato dal Parlamento (o quantomeno da un suo ramo), proclamarsi sensibile al senso dello Stato evocato di continuo e chiedere di portare lui il Paese alle elezioni, restando a Palazzo Chigi fino all’apertura delle urne.
Uno scenario che, assieme ad altri, Giorgio Napolitano deve considerare, in queste ore. Variabili sulle quali pesa poi pure la strategia delle opposizioni, a partire dalla loro minaccia di tagliare il nodo-Berlusconi ad horas, con una mozione di sfiducia.
Difficile che, come il presidente ha chiesto in infinite occasioni, i due fronti sappiano sottrarsi a «calcoli elettorali» e alla logica «da guerra politica» che si è imposta. Difficile, anzi impossibile, «un riavvicinamento tra campi politici contrapposti per condividere alcune scelte indispensabili per l’Italia». Ormai siamo al finale di partita, e l’arbitro è pronto a fare il suo dovere.


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