by Sergio Segio | 20 Novembre 2011 17:42
Dalle barricate alle firme raccolte per ottenere la cittadinanza da Mosca La protesta è cominciata in sordina, quando nei giorni scorsi a Nis, nel sud della Serbia, si è svolta una riunione delle comunità serbe che vivono in Kosovo che hanno dichiarato la loro disapprovazione verso il governo di Belgrado per non aver difeso gli interessi dei serbo-kosovari. Zlatibor Djordjevic, presidente dell’Associazione Stara Srbija (Vecchia Serbia) di Gracanica (enclave serba del Kosovo centrale), ha annunciato che già più di 21 mila firme sono state raccolte per ottenere la cittadinanza russa e «la protezione e la libertà che la Serbia non può più garantire». Il numero di adesioni è destinato a «raddoppiare»: la lista delle firme è aperta non solo ai serbi del Kosovo ma anche ai rifugiati – i più numerosi, circa duecentomila – che sono fuggiti dal Kosovo dopo l’occupazione della Nato e l’amministrazione Unmik alla fine della guerra “umanitaria” del 1999.
Qual è il punto. Il Kosovo in modo unilaterale ha proclamato nel febbraio 2008 la propria indipendenza dalla Serbia. Non solo Belgrado non la riconosce, ma divide la comunità internazionale visto che solo 80 paesi la accettano a fronte dei quasi 200 dell’Assemblea generale dell’Onu. Nel Consiglio di sicurezza Russia e Cina sono contrarie alla secessione, caldeggiata invece dagli Stati uniti, prima con la presidenza Bush e ora difesa (con la mega base Usa di Camp Bondsteel in Kosovo) anche da Obama. Spaccata è anche la Ue, con Spagna, Romania, Slovacchia e Cipro che confermano il loro no. Vale la pena ribadire che l’autoproclamazione d’indipendenza è contro il Trattato di pace di Kumanovo che nel giugno del 1999 metteva fine alla guerra garantendo da una parte l’ingresso in Kosovo della Nato ma riconoscendo dall’altra la sovranità sulla regione di Belgrado. La missione Kfor-Nato e l’amministrazione Onu-Unmik sono state legittimate sul campo solo da quel Trattato che, fatto proprio con la Risoluzione 1244 dal Consiglio di sicurezza Onu, è “diritto internazionale”. Mentre un parere non vincolante della Corte dell’Aja, pur sollecitata dalla Serbia, ha ambiguamente dichiarato l’anno scorso che quell’indipendenza «non lede il diritto internazionale».
La comunità internazionale avrebbe dunque tutti i motivi per muoversi con accortezza. Invece l’Ue, divisa, ha deciso la missione Eulex, di agenti e magistrati, ufficialmente per implementare la legalità in Kosovo, forse lo stato più corrotto del pianeta, ma di fatto per costruire un nuovo stato a stragrande maggioranza etnica albanese, grande quanto il Molise e accanto all’Albania. E dove i circa centomila serbi rimasti vivono nel terrore, dove si ripetono uccisioni e sparizioni, con le comunità serbe disperse in enclave protette ancora dai carri armati Nato e dove dal 1999 a oggi sono stati distrutti da attacchi dei kosovaro-albanesi ben 150 monasteri e chiese ortodosse. Nel nord, nell’area della città di Kosovska Mitrovica a ridosso della Serbia, vivono quasi 60mila serbi. Da settembre sono in rivolta contro il tentativo di inventare una frontiera statale con la Serbia nelle località di Jarinje e Brnjak, e per questo hanno eretto decine di barricate e blocchi stradali contro la presenza di poliziotti e doganieri kosovari albanesi appoggiati da militari Nato e da poliziotti Eulex. In un clima di tensione crescente, con scontri e molte vittime da una parte e dall’altra. Sono appoggiati dal nuovo patriarca serbo-ortodosso Irinej e, sempre più tiepidamente, dal governo serbo e dal presidente Boris Tadic. Sottoposti ai ricatti dell’Ue che nel prossimo Consiglio del 5 dicembre deve decidere il via libera allo status di paese candidato per la Serbia, nemmeno l’adesione. E per questo insiste perché Belgrado «dialoghi» con Pristina, vale a dire alla fine riconosca l’indipendenza del Kosovo. Dunque per la prima volta Bruxelles pretende che per aderire (forse nel 2018) all’Unione europea un paese candidato, la Serbia, accetti consenziente di perdere il 15% del proprio territorio storico e fondativo, come sta scritto nella nuova Costituzione serba voluta anche dal filo-occidentale Boris Tadic.
Finora le barricate sono state l’extrema ratio per i serbi del Kosovo, «Meglio le barricate che la lotta armata» è uno dei loro slogan. Ora arriva questa protesta internazionale: la richiesta di cittadinanza russa. Che richiama l’attesa e la festa per l’arrivo «salvifico» di truppe russe a Pristina nel giugno del 1999, poche ore prima dell’ingresso delle forze Nato, truppe di Mosca che si dislocarono per breve tempo poi alla periferia senza riuscire in alcun intento di protezione dei serbi o di controllo del territorio. Ma ce n’è abbastanza perché, nel nuovo clima internazionale e in vista della rinnovata presidenza russa di Putin, panslavista e tardozarista, la questione cominci a preoccupare. Anche perché dalla Russia arrivano segnali incoraggianti verso i serbi del Kosovo. Il ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov ha infatti detto: «Dal punto di vista politico, comprendiamo pienamente le ragioni che spingono i serbi del Kosovo a presentare tali richieste… e le studieremo attentamente». Mentre Dimitri Rogozin, rappresentante di Mosca presso la Nato si è spinto a definire la richiesta di cittadinanza russa dei serbo-kosovari «un’autentica benedizione», la Russia deve essere «pronta ad accoglierli» perché «potrebbero compensare in parte il nostro calo demografico». Giovedì un primo carico di 35 tonnellate di aiuti russi per i serbi del Kosovo è giunto all’aeroporto di Nis, alla presenza del ministro serbo per le questioni del Kosovo, Goran Bogdanovic e dell’ambasciatore russo Aleksandr Konuzin.
Ora Belgrado, preoccupata, corre ai ripari. Lo stesso Goran Bogdanovic ha parlato di una «azione non patriottica». Critico anche il capo negoziatore serbo con Pristina, Borislav Stefanovic che, incontrando le municipalità serbe del nord-Kosovo, ha definito la richiesta di cittadinanza russa «avventurismo romantico» perché «i serbi del Kosovo hanno solo uno stato che li può aiutare, ed è la Serbia». Solo il ministro degli esteri Vuk Jeremic riconosce che «è un grido d’aiuto verso la comunità internazionale per la repressione operata dalla comunità albanese, aiuto mai arrivato, ed è naturale che ci sia questo coinvolgimento dell’amica e partner Federazione russa. Tutti con un’occhio alle elezioni serbe della primavera 2012. Il Partito democratico di Boris Tadic è in difficoltà , soffiano sul fuoco le forze ultranazionaliste. La verità è che l’Unione europea nel vortice della crisi economica ha perso credibilità e appeal anche a Est e nei Balcani.
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