Maroni: la maggioranza non c’è più

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ROMA — «Non siamo disponibili a maggioranze diverse da quelle uscite dalle urne. Le alleanze si fanno prima, altrimenti sarebbe stravolgere le regole. Se il governo cade si va a votare. Viste le ultime notizie mi sembra che la maggioranza non ci sia più: è inutile accanirsi. Una nuova legge elettorale si può fare in tre settimane, a me piaceva molto il Mattarellum». Non cambia la linea del Carroccio e il ministro dell’Interno Roberto Maroni lo dice durante «Che tempo che fa» di Fabio Fazio, andata in onda ieri sera. La scelta di parlare in televisione non è casuale. Perché Maroni sa bene che la Lega rischia di essere travolta insieme a Silvio Berlusconi. E allora per rivolgersi ai politici, ma soprattutto agli elettori, sceglie una trasmissione popolare, la stessa dove l’anno scorso chiese di essere invitato per replicare ad alcune affermazioni sul Carroccio e le infiltrazioni mafiose fatte dallo scrittore Roberto Saviano. Allora si trattò di una partecipazione «riparatrice», questa volta la sensazione è che si sia deciso di smarcarsi prima che sia troppo tardi. Perché, come dice lui stesso, «qui si rischia di rimanere sotto le macerie».
L’intenzione di andare alle urne in caso di «sfiducia» il ministro l’aveva ben scandita tre giorni fa. Lo ripete adesso, ma è consapevole che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è intenzionato, in caso di crisi politica, a tentare ogni strada per evitare le urne. I contatti con il Quirinale non si sono mai interrotti in queste settimane, semmai intensificati. E dunque Maroni esce allo scoperto, facendo sapere che in caso di un nuovo governo tecnico, allargato all’Udc o ad altre formazioni, il partito guidato da Bossi resterà  fuori, «andrà  all’opposizione», pur sapendo che questa fase potrebbe durare almeno un anno o addirittura per un periodo di tempo più lungo.
Anche con Berlusconi in questi ultimi giorni Maroni si è confrontato spesso. Il titolare del Viminale ha cercato più volte di convincere il premier a fare quello che gran parte del Pdl sta chiedendo e che lui stesso definisce «il passo di lato», cedendo la guida a una personalità  da lui indicata. Ne ha parlato anche con Umberto Bossi, consapevole che forse le parole del «capo» — come continua a chiamarlo nonostante i rapporti non siano più quelli di una volta — avrebbero pesato di più. Ma non c’è stato nulla da fare. «Anche se riusciremo a incassare il voto favorevole sul rendiconto — è il ragionamento di Maroni a Berlusconi — non ci sono più i numeri. Possiamo resistere al massimo dieci giorni, dunque l’unica strada da percorrere è che sia tu a scegliere il successore e così spianare la strada verso le elezioni. Se continui questa sfida e cadi, la tua fine sarà  ingloriosa». Non ha fatto nomi, non ha mostrato preferenze tra Gianni Letta o altri possibili nomi. Ma sul metodo non ha mostrato esitazioni.
Parole che al momento non sembrano aver sortito alcun effetto, anche se la trattativa dietro le quinte non si è affatto interrotta e la speranza di convincere Berlusconi non è svanita. Per questo Maroni si appella pubblicamente al segretario del Pdl Angelino Alfano, «del quale ho grande stima e amicizia, per questo sono certo che lui è consapevole della crisi e dunque mi auguro che venga presa qualche decisione politica per evitare di fare la fine di Prodi, cioè di arrivare in Parlamento e fare la conta della maggioranza». Non usa mezzi termini il ministro quando definisce la Lega «sconcertata dalle diatribe interne al Pdl» e spiega che nel suo partito «assistiamo preoccupati. O il Pdl riesce a compattare le file mettendo da parte le polemiche di tutti i giorni oppure dobbiamo prendere atto che non c’è più la maggioranza molto laicamente».
L’ultima «stoccata» il ministro la riserva al suo collega di governo, il responsabile del Welfare Maurizio Sacconi che la scorsa settimana aveva manifestato la propria preoccupazione rispetto a un ritorno del terrorismo. In quell’occasione Maroni aveva taciuto, proprio per marcare la distanza da quel tipo di valutazione rispetto alle violenze nel corso delle manifestazioni. Adesso lo dice chiaramente: «C’è rischio di violenze in piazza da parte di gruppi anche di ultras del calcio, ma non di un ritorno agli anni di piombo. Non c’è il rischio di un ritorno al brigatismo degli Anni 70 e 80, una forma di violenza nuova a cui bisogna dare risposte nuove». Esattamente quanto detto in Parlamento dopo la manifestazione degli «indignati» del 15 ottobre e gli incidenti provocati da un gruppo di estremisti.


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