Ma che cosa ìsuccede se la moneta unica fa crac

by Sergio Segio | 27 Novembre 2011 8:29

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L’articolo che non si vorrebbe mai scrivere inizia con la coda dei depositanti che urlano davanti a una filiale di banca di una qualsiasi città . Vogliono ritirare i loro euro prima che vengano, qualche ora dopo, trasformati nelle vecchie dracme, nelle vecchie lire, nei vecchi franchi francesi. Ma non possono farlo perché quando un’unione monetaria si rompe le banche abbassano le saracinesche e vanno in vacanza. Tra il dicembre 1932 e l’inaugurazione di F. D. Roosevelt il 4 marzo successivo, le banche di 35 Stati americani andarono in bank holiday, dopo che l’unità  monetaria si era di fatto spezzata e un dollaro depositato nell’Illinois valeva molto meno di un dollaro su un conto di New York (con fughe di capitali da Chicago verso la costa Est). Oggi, nemmeno i Bancomat e i conti online funzionerebbero: l’intera liquidità  del sistema bancario sarebbe congelata, niente si muoverebbe per giorni, forse settimane.
Lo scenario è orribile ed è teorico. Nel senso che se ne parla solo perché — come riportava con evidenza il «New York Times» di ieri — una serie di banche internazionali sono passate in pochi mesi dal considerare nulla l’eventualità  di una rottura dell’Unione monetaria europea a vederla prima possibile e ora probabile. Ragione per cui preparano il piano B — la risposta al disastro — nel caso il piano A — il salvataggio dell’euro — fallisse. Il piano A, per quanto incerto, è comunque operativo e non è affatto detto che finisca in un flop. Sta di fatto che molte istituzioni creditizie, soprattutto anglosassoni, preparano se stesse e i propri clienti al peggio, e di questo occorre tenere conto. Sapendo che una procedura per un abbandono controllato e ordinato dell’euro non esiste, non è mai stata prevista.
Se uno o più Paesi uscissero dall’eurozona il caos sarebbe gigantesco e mondiale. Naturalmente, proporzionato al numero e al peso economico delle Nazioni coinvolte. Nessuno sa calcolare con precisione quali sarebbero i costi di un evento del genere. La banca svizzera Ubs ha provato a fare delle ipotesi e ha stimato che se la Grecia tornasse alla dracma ciò costerebbe a ogni greco tra i 9.500 e gli 11.500 euro nel primo anno, cioè tra il 40 e il 50 per cento del Prodotto interno lordo. Più tre o quattromila euro pro capite per alcuni anni successivi. Le perdite sarebbero il risultato del default del debito pubblico, del collasso del sistema bancario, dei numerosi fallimenti delle imprese, della chiusura delle frontiere con il conseguente blocco del commercio.
Se invece — sempre nell’ipotesi di scuola dell’Ubs — a uscire dall’euro fosse la Germania, cioè il Paese più forte, ciò costerebbe a ogni tedesco, compresi i bambini, tra i sei e gli ottomila euro nel primo anno, cioè il 20-25 per cento del Pil. Poi, altri 3.500-4.500 euro per ognuno degli anni successivi. Per la Germania questo costo dipenderebbe dai fallimenti societari, dalla necessità  di ricapitalizzare il sistema bancario e dal crollo delle esportazioni, dal momento che il nuovo marco si apprezzerebbe significativamente rispetto all’euro, al dollaro, allo yen. Se la moneta unica si spezzasse in due blocchi, il costo sarebbe enorme sia per chi resta nella valuta forte sia per chi finisce in quella debole. Una frammentazione totale dell’euro, infine, sarebbe calcolabile nell’ordine delle numerose migliaia di miliardi.
Questa simulazione dà  solo un’idea della portata di un evento del genere. I numeri non rendono il dramma. Se dalla sera alla mattina un Paese uscisse dall’euro — da solo o come frutto del collasso totale dell’Unione monetaria — i cittadini scoprirebbero prima di tutto che il denaro non c’è più. Certo, la banca centrale nazionale inizierebbe a stampare le valute di una volta, quelle che si sono usate fino agli anni Novanta. Il sistema bancario, però, sarebbe bloccato, nessun istituto farebbe operazioni con un altro, ognuno considererebbe l’altro a probabile rischio di fallimento, date le perdite provocate dal cambio della moneta. Sulla base dell’esperienza dell’Argentina e dell’Uruguay dieci anni fa, si può infatti stimare che la svalutazione di dracma, peseta, lira, franco francese sarebbe nell’ordine del 50-60 per cento rispetto a una media tra le maggiori valute.
La seconda cosa di cui i cittadini e soprattutto le imprese si accorgerebbero poi è che avere debiti denominati in euro a quel punto sarebbe una sciagura. Certamente le autorità  politiche interverrebbero per trasformare i debiti in essere nella nuova valuta. Ma si aprirebbero contenziosi legali infiniti per decidere se la perdita secca del 50-60 per cento la deve sopportare, per dire, l’azienda di turismo ateniese che ha preso a prestito da una banca di Francoforte oppure la banca di Francoforte stessa. Ci vorrebbero anni per risolvere le dispute, con l’effetto collaterale di rendere tesi, se non esplosivi, i rapporti tra Paesi diversi. Perdite colossali, in ogni caso, da registrare nei bilanci delle famiglie, delle banche o delle imprese. In Europa e ovunque: negli Stati Uniti, le banche stanno già  effettuando test per stabilire cosa succederebbe ai loro bilanci se l’eurozona finisse nel caos e cinque giorni fa l’autorità  finanziaria di Hong Kong ha iniziato a monitorare le proprie banche per controllarne l’esposizione al Vecchio Continente. Insomma, i fallimenti sarebbero a catena in Europa, ma anche nelle altre aree del mondo più di una banca e parecchie imprese certamente potrebbero finire a gambe all’aria. E ovunque, dall’Asia all’America, il sistema finanziario smetterebbe di funzionare, nessuno presterebbe niente a nessuno. Risultato: una profonda depressione economica globale.
Il debito pubblico di un Paese che abbandona la moneta unica — che oggi è ovviamente denominato in euro — dovrebbe essere falciato di forza dal governo — con un default pieno — di una percentuale pari almeno alla svalutazione subita dalla nuova moneta rispetto all’euro. Anche in questo caso, contenziosi enormi e conseguenze politiche drammatiche. Come minimo, il Paese in questione avrebbe ogni accesso al mercato sbarrato, perderebbe la fiducia di qualsiasi investitore e non sarebbe in grado di emettere alcuna obbligazione per anni a venire. Senza credito alle imprese, con i consumi in caduta, con lo Stato incapace di pagare dipendenti e fornitori, il cittadino scoprirebbe poi che il risultato più drammatico di una grave crisi del credito è la caduta dell’economia, la chiusura di un gran numero di imprese e l’esplosione del numero dei disoccupati. Le file rumorose si sposterebbero presto dalle filiali delle banche agli uffici del lavoro.
Nel frattempo, per evitare fughe di capitali come quelle tra Chicago e New York del 1933, le autorità  chiuderebbero le frontiere e sospenderebbero la libertà  di movimento finanziario. Il Paese (o i Paesi) coinvolto sarebbe tagliato fuori dal resto del mondo in termini finanziari e per quel che riguarda il commercio. Il mercato unico europeo, architrave della Ue, rischierebbe di frantumarsi a sua volta, l’area Schengen diventerebbe un ricordo. Sul piano politico, governi cadrebbero e i populismi prospererebbero. Ricostruire l’Europa richiederebbe decenni (la buona notizia è che l’America di Roosevelt ristabilì l’unione monetaria in cinque anni).
Questo è lo scenario drammatico di un crollo incontrollato dell’euro. Del tutto ipotetico e portato alle conseguenze estreme. Tra il salvataggio della moneta unica — possibilità  ancora largamente dominante rispetto a ogni altra — e la tempesta perfetta si possono fare ipotesi intermedie, a cominciare dall’uscita controllata (per quel che è possibile) di un Paese dall’Eurozona. Evocare il peggio, però, aiuta a concentrare le menti, a misurare il pericolo. Forse, a evitare che quell’articolo che non si vorrebbe scrivere venga davvero scritto.

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