by Sergio Segio | 20 Novembre 2011 17:52
Torna l’Ici, e chissà se stavolta la pagheranno anche gli enti ecclesiastici e religiosi proprietari di immobili, che da anni godono di ampie esenzioni.
Sul ripristino dell’imposta, il neo-premier fresco di fiducia è stato chiaro: «L’esenzione dall’Ici delle abitazioni principali costituisce una peculiarità , se non vogliamo chiamarla anomalia, del nostro ordinamento tributario», ha detto Mario Monti giovedì al Senato preannunciando che intende «riesaminare il peso del prelievo sulla ricchezza immobiliare». Dunque non solo il ritorno dell’Ici, ma anche un aumento dei valori catastali o delle aliquote. Sulle esenzioni per gli enti ecclesiastici, però, neanche una parola da parte del presidente del Consiglio che venerdì, prima di andare a Montecitorio per il voto di fiducia, si è precipitato a Fiumicino per salutare il papa in partenza per il Benin. Eppure in tempi che saranno non di «lacrime e sangue», perché a Monti l’espressione truculenta non piace, ma di «sacrifici», l’abolizione di questa esenzione, secondo le prudenti stime dell’Anci, consentirebbe di recuperare ogni anno almeno 500 milioni di euro di tasse non versate e di far pagare un po’ di crisi anche a chi finora «ha dato di meno», come ha detto il premier alla Camera, o non ha dato nulla.
L’esenzione dal pagamento dell’Ici per gli immobili di proprietà ecclesiastica, infatti, è totale. E il gruppo Re (società finanziaria e immobiliare «al servizio della Chiesa cattolica») ha calcolato che la Chiesa – attraverso una miriade di enti, confraternite, istituti religiosi e diocesi – è padrona del 20 per cento del patrimonio immobiliare italiano: ne è stata fatta di strada da quando Gesù diceva ai suoi discepoli che «le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». Solo a Roma il radicale Maurizio Turco ha contato oltre 23mila immobili di proprietà di 2mila enti ecclesiastici, alcuni creati ad hoc per mimetizzarli meglio.
La storia dell’esenzione Ici è piuttosto travagliata, ma per la Chiesa sempre a lieto fine. Venne introdotta fin da subito, nel 1992, con la nascita dell’imposta. A metà anni ’90 il Comune dell’Aquila avviò un contenzioso contro l’Istituto delle suore zelatrici del Sacro cuore e gli intimò il pagamento dell’Ici per alcuni immobili usati come casa di cura per anziani e pensionato per studentesse universitarie. Ne scaturì una battaglia di ricorsi e contro-ricorsi fra le religiose e l’amministrazione comunale che, dopo una guerra legale durata quasi dieci anni, vinse: la Corte di cassazione stabilì che l’attività delle suore non era né di culto né benefica – come prevedeva la legge – ma commerciale, perché le anziane e le studentesse l’ospitalità la pagavano. A soccorrere le zelatrici, e con loro tutti gli altri enti ecclesiastici proprietari, provvidero subito Berlusconi e Tremonti, al governo nel 2005, che modificarono la legge e salvarono suore e religiosi: erano esentati dall’Ici gli immobili di proprietà ecclesiastica in cui si svolgevano anche attività commerciali purché «connesse a finalità di religione o di culto». Un condono tombale.
L’anno successivo, appena vinte le elezioni, Prodi e Bersani, anche perché l’Europa si stava interessando al caso – e sta tuttora indagando sulla questione che si configurerebbe come improprio aiuto di Stato -, tentarono di correggere la rotta, giocando con gli avverbi: sono esentati dall’Ici gli immobili di proprietà ecclesiastica (e degli enti «senza fini di lucro») destinati al culto e allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive purché «non abbiano esclusivamente natura commerciale». Il «non esclusivamente» sanò alcune situazioni limite, ma mantenne intatti i privilegi delle migliaia di conventi trasformati in alberghi, case di riposo, cliniche e scuole private, tanto che lo stesso Bersani, l’inventore della formula avverbiale, la scorsa estate, quando infiammava la campagna sui privilegi della Chiesa, ammise che la norma lasciava spazio a una «casistica di confine».
Sembrava che l’esenzione potesse scomparire nel 2014, quando sarebbe stata introdotta l’Imu (Imposta unica municipale), la nuova tassa «federalista» partorita da Tremonti nel 2010 ma, in seguito alle vibranti proteste della Cei, venne subito ripristinata. A tagliare la testa al toro ci hanno provato di nuovo i Radicali – gli unici, a livello politico, a impegnarsi senza equilibrismi filo-clericali – che a settembre hanno presentato un emendamento a una delle tante manovre economiche del governo Berlusconi-Tremonti: «L’esercizio a qualsiasi titolo di un’attività commerciale, anche nel caso in cui abbia carattere accessorio rispetto alle finalità istituzionali dei soggetti e non sia rivolta ai fini di lucro comporta la decadenza immediata dal beneficio dell’esenzione dell’imposta». Caritas salve, ma conventi-alberghi sottoposti alla normale tassazione riservata agli enti commerciali. Emendamento bocciato, ovviamente, esenzione integra.
Chissà se il «tecnico» Monti sarà in grado di mettere mano alla normativa e abolire il privilegio per gli enti ecclesiastici. Ma, ammesso che voglia farlo, dovrà vedersela con alcuni dei suoi ministri: Andrea Riccardi, fondatore e leader della Comunità di sant’Egidio, che è di casa in Vaticano, e soprattutto Lorenzo Ornaghi, ministro della Cultura ma anche da dieci anni vicepresidente del Consiglio di amministrazione del quotidiano della Cei Avvenire, e rettore dell’università Cattolica di Milano. Dove, fra l’altro, l’Ici non si paga.
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