«San Raffaele, fondi neri» In cella il faccendiere Daccò
MILANO — Due interrogatori-fiume a tarda sera in Procura, un uomo d’affari fermato per pericolo di fuga, e don Luigi Verzé fra i 5 indagati per concorso in bancarotta: è la prima svolta nell’inchiesta della Procura di Milano sul quasi crac della Fondazione San Raffaele-Monte Tabor, lo scorso 28 ottobre ammessa dal Tribunale fallimentare (seppure con parecchie condizioni) al concordato preventivo in base al piano dello Ior e dell’imprenditore Vittorio Malacalza per salvare il colosso sanitario che impiega 3.800 dipendenti, fondato dal 91enne vulcanico prete-manager ma svuotato da un buco-record di un miliardo e mezzo di euro e squassato dal suicidio in istituto il 18 luglio del 71enne vicepresidente Mario Cal.
A finire in carcere per la notte, in attesa che oggi il giudice delle indagini preliminari di turno decida sulla richiesta della Procura di convalidare in arresto lo stato di fermo, è il 55enne Piero Daccò, intermediario in rapporti d’affari e di consulenze con il San Raffaele, accreditato di ottime entrature in Regione Lombardia e indicato come molto vicino a Comunione e Liberazione, nato in provincia di Lodi ma residente a Londra, con interessi e case in Svizzera ma propaggini societarie più o meno dirette in Olanda e a Curacao.
Proprio l’intensificarsi della sua permanenza all’estero più che in Italia, sommata ad alcuni suoi movimenti finanziari, hanno indotto i pm a cogliere ieri l’occasione di un breve rientro in Italia di Daccò per sottoporlo a un fermo. Le carte fanno così affiorare le prime acquisizioni delle indagini svolte dalla sezione di polizia giudiziaria (mista GdF e PS) della Procura, e mostrano che i pm stanno cercando di orizzontarsi nel labirinto del volatilizzato miliardo e mezzo seguendo un filo d’Arianna in apparenza relativamente esile: la traccia di 3 milioni e mezzo di euro per i quali Daccò risulta indagato per concorso in bancarotta in relazione a tre episodi.
Il loro denominatore comune è il meccanismo: la Fondazione San Raffaele, strapagando con sovrafatturazioni i fornitori che poi le retrocedevano notevoli quantità di contanti, si sarebbe procurata enormi somme di denaro in «nero», che Cal avrebbe consegnato all’intermediario Daccò per destinazioni che sinora non appaiono indicate nel provvedimento di fermo.
In esso, invece, e relativamente a uno dei tre episodi, don Verzé compare per la prima volta come coindagato di Daccò per l’ipotesi di concorso in bancarotta, così come in un altro episodio si trova nella medesima situazione l’ex direttore finanziario Mario Valsecchi, che sinora era l’unica persona che si sapeva indagata e solo per false fatturazioni.
Nelle stesse ore si precipitavano in Procura due fornitori molto particolari della Fondazione San Raffaele, i costruttori (padre e figlio) Pierino e Giovanni Luca Zammarchi, le cui società (come Diodoro e Methodo) hanno avuto in portafoglio per decine di milioni di euro moltissimi lavori per il San Raffaele, come la vicina residenza alberghiera o la struttura di Olbia.
Indagati anch’essi per concorso nella bancarotta del San Raffaele, sempre per il meccanismo delle restituzioni in «nero» al San Raffaele, i due Zammarchi iniziano nel pomeriggio di ieri due interrogatori separati, ma contemporanei, che a tarda serata in Procura non erano ancora terminati: uno nell’ufficio del pm Laura Pedio, l’altro in quello del collega Gaetano Ruta, con il pm Luigi Orsi a fare la spola tra le due stanze e quella del capo del pool reati finanziari Francesco Greco.
Per i Zammarchi è il momento più delicato, ma non il primo inciampo giudiziario: nell’aprile 2008 il pool Antimafia aveva ipotizzato che il clan di camorra di Vincenzo Guida (poi assolto sia dall’associazione mafiosa sia da un delitto), allo scopo di salvare parte del proprio patrimonio dalle confische seguite a una inchiesta del 1999/2001, nel 2003-2006 avesse fittiziamente intestato terreni e immobili a Milano (posti allora sotto sequestro per 10 milioni) in pancia a una società rispettabile come appunto la Diodoro. Ma il Tribunale nel 2010 aveva assolto gli imputati e restituito i beni alla Diodoro, ritenendo che non li avesse comprati con i soldi affidatile dai camorristi per sfuggire alla confisca, ma con gli utili conseguiti dal gruppo in 15 anni di attività imprenditoriale nell’edilizia.
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