Lo smantellamento dello Stato sociale

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Pesca più a fondo. In un mondo in cui gli Stati Uniti, con 300 milioni di abitanti, consumano l’80% delle risorse del pianeta, riguarda la possibilità  di conciliare gli entitlements, cioè i diritti di cui i cittadini si ritengono legittimi titolari, con le provisions, cioè le risorse effettivamente disponibili nelle nazioni tecnicamente progredite per farvi fronte. Nei paesi più sviluppati, in particolare nell’Europa Occidentale o Unione Europea, nel Nord America e in Giappone, dopo la grande transizione storica dallo Stato di diritto allo Stato dei diritti, questa tensione fra entitlements e provisions è diventata drammatica. Notavo vent’anni fa che la tensione, di cui discorre ampiamente con il consueto accattivante praticismo di diligente burocrate Ralf Dahrendorf, scaturisce dalle contraddizioni e dai dilemmi dello Stato democratico pluriclasse socialmente orientato, di cui scrivevo nel 1954, introducendo L’azione volontaria di Lord Beveridge in Italia.
Ma lo Stato di cui parlano Beveridge e Dahrendorf non può essere spacciato, se non con inammissibili forzature, per lo Stato sociale di William Beveridge. L’interpretazione spenceriana dello Stato, quella che sottende la posizione liberale tradizionale, è puramente negativa. La formulazione classica di questa posizione la si può trovare in Man versus the State. Essa corrisponde abbastanza esattamente agli interessi delle classi medie al loro sorgere nel mondo moderno, in rivolta contro i residui del dispotismo feudale e appassionatamente devote alla libertà  di movimento, di azione e di atteggiamento dell’individuo.
Non c’è strabismo, temo, che possa far scambiare questa situazione storica e culturale con quella italiana. La ricetta di Beveridge contro gli eccessi dell’autoritarismo centrale e il mito dello Stato onnipresente e onnisciente è di natura strettamente pragmatica e non ha riscontro nella cultura politica italiana, salvo forse il caso del gran lombardo Carlo Cattaneo, del resto presto isolato e battuto, con il suo giudizioso, sobrio e tenace riformismo, dalla retorica delle patrie carducciane e dei “soli dell’avvenire” privi di avvenire.
In Italia non sono solo le carenze a suo tempo individuate da Piero Godetti a pesare (mancanza di una rivoluzione politica, come in Francia, e di una riforma religiosa, come in Germania). C’è di più, e di peggio. Bisogna fare uno sforzo e andare a rileggere, sociologicamente, il codice Rocco, che solo da pochi anni ha subito varianti procedurali di un certo rilievo con riguardo al processo penale. Vi spira una fredda, coerente aria di autoritarismo centralizzato assoluto, in cui la spaccatura classista della società  viene esaltata come una funzionalità  ritenuta nello stesso tempo necessaria e auspicabile. Ad Alfredo Rocco corrisponde, sul piano della scuola e su quello, più ampio, della cultura politica, Giovanni Gentile. Con la sua riforma, Gentile deliberatamente riserva il ginnasio e il liceo alle classi alte, vivaio per i futuri dirigenti in tutti i campi, mentre alle classi popolari vengono indicati i corsi della “scuola di avviamento professionale”, secondo un disegno di autoperpetuazione delle élite al potere in cui l’intelligenza si suppone duramente condizionata dalle origini sociali e familiari.
In Europa lo Stato sociale non è più in grado, oggi, di far fronte ai suoi impegni. Non può far debiti indefinitamente. Non ha più una banca centrale con pieni poteri. E la Banca centrale europea non è disposta e non è comunque in grado di comprare tutti i buoni del Tesoro necessari a “servire” il debito. D’altro canto, la classe politica non può, non ha né il coraggio né la lungimiranza per imporre drastiche misure, di cui pure riconosce, a parole, la necessità . Ne va della sua rielezione. Sono misure necessarie ma impopolari: imposta patrimoniale, abolizione di vasti parassitismi in tutti i servizi pubblici, elevazione dell’età  pensionabile, riforme delle pensioni di anzianità  e dell’assistenza sanitaria pubblica.
È chiaro che chi si è battuto in Italia per i diritti sociali e per lo Stato sociale ha avuto una certa quota di illusioni, se non di pura e semplice ingenuità , che una certa vocazione al sarcasmo potrebbe anche presentare come analfabetismo economico o sprovveduta spinta utopistica. Non andrebbe però dimenticata o sottovalutata, dai duri realisti odierni che non perdono occasione per incensare il mercato (che non è più solo italiano – avvertono – ma è anzi europeo, anzi mondiale), la funzione sociale dell’utopia.
Non c’è solo lo Stato. Quando si dice “pubblico”, nella pubblicistica politica italiana e, cosa più grave, nella mentalità  media dei politici, si pensa unicamente allo Stato. Pubblico non significa solo statuale, secondo una impostazione essenzialmente statolatrica, che purtroppo non è stata prerogativa solo della destra politica fascista, ma per anni ha anche permeato e seriamente compromesso le prospettive della sinistra innovatrice. Pubblico significa statuale, ma anche, e forse in primo luogo, sociale. La società  civile è più ampia dello Stato; non può accettare di venirne tutta assorbita senza correre il rischio di negarsi. Lo Stato, ad ogni buon conto, con riguardo ai diritti sociali, si è mosso in Italia secondo due modalità  di intervento largamente insufficienti: da una parte, trasferimenti monetari e, dall’altra, istituzione di servizi sociali erogatori di prestazioni dirette.
Entrambe le modalità  di intervento, non solo in Italia, sono approdate ad esiti per certi aspetti negativi. I trasferimenti monetari non garantiscono livelli minimi di sussistenza, tali almeno da far uscire dalle situazioni di povertà  e di indigenza cronica – si vedano in proposito le risultanze della Commissione Gorrieri – né fungono da volano per l’economia con l’aumento dei consumi interni, se non marginalmente e per prodotti di uso comune. I servizi sociali, d’altro canto, non sembrano in grado di trarsi fuori dalla spersonalizzante spirale burocratica, autentica maledizione italiana che frustra nel momento dell’implementazione anche le leggi socialmente più avanzate, con incredibili inefficienze, costi e sprechi incalcolabili, insoddisfazione ai limiti del tollerabile da parte dei cittadini-utenti. La visione generosa di Claudio Napoleoni che scorgeva il loro trasformarsi in relazione comunicativa umana, pensando al rapporto tra operatore sociale e utente, in una vena forse non immemore dell’apporto di Lord Beveridge, resta a tutt’oggi un prologo in cielo, se non un’illusione finanziariamente insostenibile.
Il debito pubblico è dunque destinato a crescere. D’altro canto, la classe politica non può permettersi interventi drastici, teme l’impopolarità . I “mercati”, intanto, speculano sulla paralisi; gli interessi sul debito crescono rapidamente, salgono e scendono, ma soprattutto salgono (dall’1,9% ad agosto al 7,3% a novembre 2011). I politici lasciano il posto e passano le leve di comando ai tecnici; almeno loro non hanno da temere le elezioni. Se necessario, sono nominati senatori a vita. Trionfano, nelle loro ovattate stanze, i potentati finanziari, rigorosamente anonimi, ancora giuridicamente “domicili privati”, a vergogna dei giuristi, anche quando le loro inappellabili decisioni incidono sulle condizioni di vita di intere popolazioni. Sono il deus absconditus che comanda a quelli che comandano. Come accadeva in Inghilterra nel Medioevo, quando il boia veniva dalla città  vicina, la crisi sociale potrà  contare sui suoi anonimi, asettici, ma efficienti macellai sublimati.


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