L’Italia made in Cina
WUQING. A Venezia il Canal Grande non ghiaccia mai. In Cina sì. A Roma il Colosseo è vecchio e tenerlo in piedi costa un patrimonio. In Cina è nuovo di zecca e rende palate di soldi. A Firenze il David di Michelangelo e la Primavera di Botticelli sono nudi. In Cina il primo indossa i jeans e la seconda, minigonna e stivaloni al ginocchio. C’è un’altra differenza tra la realtà italiana e la finzione cinese: l’Italia affonda nella recessione e i consumi calano, la Cina veleggia nella crescita e i consumi esplodono. Benvenuti a Wuqing, l’ultimo brandello di Belpaese dove i negozi scoppiano di clienti, per le strade girano solo milionari e ai tavolini dei caffè siede gente che ride e si diverte. È emigrato qui, in una landa di capannoni e grattacieli stretti tra la periferia di Pechino e quella di Tianjin, il più straordinario esemplare di Occidente consumista in fuga dall’Europa e alla ricerca del nuovo eldorado dell’Asia. Si chiama “Florentia Village” ed è sorto dal nulla, in un anno e mezzo, dove prima resistevano campi di mais e distese di peschi. Sessantamila metri di marmi, mattoni e sanpietrini, con terrazze in legno e balconi fioriti affacciati su fontane simil-Bernini e sopra piazze medievali, da cui svettano il campanile di San Marco e quello di Giotto. Sotto i portici, avvolti tra i grandi classici della canzone napoletana, vagano quarantamila clienti al giorno, impegnati nella caccia grossa all’affare dell’anno. Professionisti dell’occasione e adoratori del marchio, scienziati dello sconto ed esibizionisti del lusso, drogati di shopping e cultori dell’arte, ma prima di tutto innamorati della fiaba italiana che si continua a narrare in Oriente. Perché a Florentia è tutto finto e i secondi piani degli edifici servono solo da scenografia per lo spettacolo di un’inesistente città roman-rinascimentale, catapultata nel cuore di una megalopoli cinese da cinquanta milioni di abitanti: ma alla nuova classe media più numerosa del pianeta non interessa affatto trovarsi in un luogo che non c’è, dentro un grottesco frullatore della storia, dell’arte e dell’architettura più chic del Vecchio Continente. I già inguaribili spendaccioni della capitale, o le masse partite in treno da Shanghai e in aereo da Shenzhen per un weekend in omaggio alla “Dolce Vita”, pretendono l’italian style.
Ma ancor di più sognano album fotografici con sfondi europei e attimi romantici nell’illusione di atmosfere felliniane. Il gruppo italo-americano che ha scelto questo sobborgo di quasi quattro milioni di immigrati pendolari per investire i suoi primi 120 milioni di euro in Cina, ha pensato anche a questo. Inizialmente tentato di ricostruire un fortino western, con boutique ospitate dentro tende Apache, ha infine optato per Florentia, rappresentazione doc del viaggio-base di un turista cinese in Italia: Roma, Firenze, Venezia, più i negozi dell’alta moda di Milano. Lungo il Canal Grande, che nasce per incanto da un parcheggio per cinquemila auto e finisce dentro un cartellone pubblicitario, scivolano anche alcune gondole e per fare un giro di trecento metri, quando scocca l’ora del tramonto, le coppie dei promessi sposi prenotano online con settimane di anticipo. In questi giorni fa freddo, ma nell’immaginario asiatico la bella vita del Mediterraneo inizia e termina al tavolino all’aperto di una trattoria, un bicchiere di vino davanti e il forno a legna alle spalle, mentre una fisarmonica attacca “O sole mio”. Tremila cinesi a pasto, dotati di valigie che scoppiano di acquisti, prendono così d’assalto il ristorante di Samuele Rossi, 37 anni partito dalla provincia di Rovigo quando ne aveva venti. A sorpresa non si chiama né “Ciao” né “Amore”, qualche comitiva di campagna esprime delusione perché non è stato battezzato “Bunga Bunga”, ma si riprende quando fotografa il nome “Bella Vita” e viene fatta accomodare con due olive e aperitivo proprio difronte al ponte di Rialto, che a Wuqing collega due coloratissime schiere di palazzi che riproducono Burano.
In questo travolgente mix tra un parco dei divertimenti e un centro commerciale, si viene per fare il pieno dei brand obbligatori per seppellire le divise rivoluzionarie di Mao Zedong, ma si resta per simulare quella vacanza in Europa che i capitalisti del socialismo di successo iniziano a mettere in agenda. «In Italia – dice il direttore del “Florentia Village”, Nelson Chan – si va per i monumenti, per i negozi e per la cucina. Occorre molto tempo e molto denaro. Qui offriamo le stesse cose, a due passi da casa e per pochi spiccioli. Così la gente può concentrarsi sugli acquisti». Se la parola d’ordine di Deng Xiaoping era «arricchirsi», trentacinque anni dopo lo slogan di Hu Jintao è «spendere». La Cina è al vertice del successo economico, ma in Occidente e in Giappone il sistema è a pezzi. Le esportazioni della «fabbrica del mondo» languono, le imprese del Guangdong chiudono e anche la crescita del Pil di Pechino si raffredda. Barra dunque sui consumi interni, la prova contemporanea della fedeltà alla patria, e rotta verso il «paradiso degli outlet» di Wuqing che garantiscono «l’Italia a venti minuti da Pechino e dieci da Tianjin». L’entusiasmo è tale che nessun cinese si mostra turbato dalla ciminiera di una centrale termica che domina la vista, o dalla linea ferroviaria ad alta velocità che attraversa il parco giochi dove le famiglie posteggiano i bambini. Qui lo shopping, dalle otto del mattino alle dieci sera per 365 giorni all’anno, assurge a celebrazione mistica e i suoi sacerdoti “italoamericancinesi” hanno ideato il rito perfetto di 800 dipendenti-attori. Metà città riservata al lusso, il Canal Grande in mezzo a dividere le classi e l’altra metà dedicata ai marchi giovani. Da una parte i nuovi ricchi e dall’altra i nuovi benestanti, ma ovunque la massa soggiogata dalla tentazione di vedere cos’è il mitico pianeta di un universo perduto chiamato Italia. E tutti irresistibilmente attrattati dal dolce suono della parolina magica che sta trasformando i cinesi di ieri nei giapponesi di domani: «Sconto».
Florentia, oltre ad essere il conglomerato di outlet più grande della Cina, è anche il primo in cui i marchi più costosi del made in Italy hanno accettato di mettere la merce in offerta. Una regola inflessibile: i duecento negozi devono garantire solo prodotti originali e in vendita con ribassi dal 30% al 70%. Attrazione fatale: ciò che a Pechino e a Shanghai costa 10 mila, sotto i portici di “Piazza San Carlo” si porta via a 3 mila. Una differenza c’è: le collezioni sono quelle della stagione europea appena terminata. «Ma in Cina – dice Wan Wenying, vice presidente nazionale della camera di commercio – tutto è nuovo. Quando in Manciuria nevica, ad Hainan facciamo il bagno. Qui il lusso non conosce stagione e le città degli outlet si preparano ad esplodere. Oggi al mondo ne esistono 500, metà negli Usa e cento in Europa. Nel Paese ne contiamo solo una trentina, ma entro cinque anni ne avremo più di duecento e nel 2020 più che in America». È per conquistare questo prodigioso e ormai vitale portafoglio asiatico che industria e commercio abbandonano l’Occidente e costruiscono mondi nuovi in Estremo Oriente. I proprietari di Florentia nel 2012 apriranno altri due cloni di Italia a Shanghai e a Chongqing, otto entro il 2015 in città cinesi di seconda fascia. Un fiume di capitali, creatività e lavoro dirottati dal rosso del mondo a segno meno, al nero del pianeta con il più. Al visitatore europeo le nuove Disneyland cinesi del commercio possono apparire kitsch, come i loro frequentatori che per avere fortuna nelle contrattazioni all’ingresso si infilano tra i capelli piccole orecchie di animali in finto pelo.
Spettacolo e shopping, turismo e divertimento, rappresentano però la formula della crescita nella nuova potenza economica del mondo ed è la realtà con cui ci si deve misurare. Gli analisti sussurrano che il lusso a prezzi scontati anticipa la crisi in arrivo anche in Cina e che le quinte hollywoodiane alla Florentia sono necessarie per smaltire montagne di prodotti invenduti e aggirare i dazi che ancora frenano certe merci straniere. Saremo anche nell’epicentro delle avvisaglie di un ciclone prossimo venturo, ma nella piazza San Pietro di Wuqing il Natale 2011 si annuncia da record. Decine di squadre di operai, travestiti da Santa Claus e stupiti dalle imitazioni dei tondi dei Della Robbia, finiscono di montare le luminarie e un gigantesco abete sintetico prende il posto di una magnolia. Presto arriveranno le slitte per le foto di gruppo sulla neve artificiale, sotto i portici crescono i muri rossi e verdi dei pacchi-regalo e nella trattoria si annuncia zampone e tacchino. Non importa se il Natale in Cina non è mai esistito e il Capodanno arriva tre settimane dopo. Florentia garantisce ai clienti di essere Italia e dunque la festa è cominciata. «Abbiamo iniziato in ottobre con l’anniversario della rivoluzione – gongola Nelson Chan – proseguiamo ora con le festività occidentali per lanciarci poi sul nostro Festival di Primavera, che il 23 gennaio inaugurerà l’anno del Drago. Le scorte di merce non bastano per tutti, davanti ai negozi c’è la coda e si entra a numero chiuso, le vendite al dettaglio crescono ogni mese del 40%. Magari un giorno costruiremo un Grande Muraglia dedicata allo shopping alle porte di Parigi». Ecco dove si sono nascosti tutto il denaro e l’ottimismo perduti del mondo che non funziona più: in una virtuale città italiana che in Italia non esiste, ma che nella Cina reale, fa male dirlo, funziona da far spavento.
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