‘Licenziare fa bene’: che bufala

by Sergio Segio | 7 Novembre 2011 18:24

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Immaginare che rendendo più facili i licenziamenti si favoriscano maggiori assunzioni da parte delle imprese, come dice di voler fare la riforma minacciata dal governo Berlusconi, è un teorema tutto da dimostrare. Purtroppo, infatti, esso ricorda molto da vicino lo stesso fragile impianto logico di un’altra escogitazione del pensiero liberista: la cosiddetta curva di Laffer. Quella secondo cui una diminuzione delle imposte comporta necessariamente un aumento del gettito fiscale a favore dello Stato perché la minore esosità  dell’Erario rende meno conveniente il ricorso a stratagemmi di evasione o elusione tributaria.

Finora nessun paese si è azzardato ad applicare la cura Laffer in termini tali da verificarne gli esiti effettivi.

Né i parziali esperimenti adottati in materia dall’amministrazione Reagan sono stati tali da portare a conclusioni positive. Tanto che un premio Nobel come Joseph Stiglitz si è sentito autorizzato a liquidare quella teoria come uno “scarabocchio su un qualunque pezzo di carta”. Uno scarabocchio, tuttavia, che nelle sue pur limitate applicazioni americane ha prodotto conseguenze pesanti sulla distribuzione sociale delle risorse: in particolare, concentrando vieppiù le ricchezze nelle mani delle classi più agiate così spostando a danno dei ceti più poveri l’asse di equilibrio nel sostegno allo Stato fiscale.

Ha un bel dire il ministro Sacconi che la sua nuova disciplina per i licenziamenti non nasce da una visione punitiva nei confronti delle parti più deboli nei contratti di lavoro. Fatto sta che la sua riforma mette assieme una certezza giuridica per la parte relativa alla dismissione dei lavoratori con una scommessa economica del tutto aleatoria per quanto riguarda l’auspicato effetto di rendere altrettanto più facili le assunzioni. Cosicché la novità  che egli propone appare come una sperimentazione il cui peso è destinato a ricadere, almeno negli anni iniziali, interamente sulle spalle dei lavoratori. Mentre alle imprese nulla si chiede, nell’astratta speranza che la facilitazione loro concessa possa indurle a disfarsi di un lavoratore per assumerne un altro, se e quando lo riterranno vantaggioso.

Se l’Italia attraversasse una fase di crescita economica quanto meno moderata e di minor pressione inflazionistica sui salari, l’idea di sottoporre il mercato del lavoro a un così drastico esperimento di torsione potrebbe forse apparire un po’ meno feroce. Ma il nostro paese arranca, l’inflazione è in crescita, il debito incombe e la disoccupazione aumenta (ben sopra l’8 per cento) anche perché diminuisce il numero degli occupati a dimostrazione che per licenziare non c’è affatto bisogno degli incentivi sacconiani. A parte, quindi, ogni considerazione di merito specifico, la proposta del governo cade oltre tutto nel momento più sbagliato.

Evidentemente il ministro del Lavoro soffre di un serio problema di adattamento delle sue convinzioni ideologiche alla realtà . Già  al suo esordio governativo, infatti, Sacconi si produsse nella brillante trovata di puntare sulla defiscalizzazione del lavoro straordinario in una fase nella quale le imprese facevano fatica a mantenere nei loro impianti il normale orario di lavoro.

Perseverare in simili errori – esasperandoli ora con ambigue profezie terroristiche – è segno di malizia politica coniugata a dilettantismo economico.

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