by Sergio Segio | 9 Novembre 2011 7:37
«Traditori», ha scritto sul foglio che aveva davanti. Era terreo. Come se il cerone sul viso si fosse impastato con la sorpresa, lo sgomento, la collera. Come avevano osato? I nomi! Fuori i nomi! E con Roberto Maroni e Laura Ravetto e Michela Vittoria Brambilla e Ignazio La Russa che gli si affollavano intorno, stava lì a guardare i tabulati mettendo a fuoco uno ad uno chi lo aveva «tradito». Ripassando la magnanimità che da buon monarca riteneva di aver avuto. Roberto Antonione: «E pensare che lo avevo fatto coordinatore del partito…». Giustina Destro: «E io che le avevo fatto fare il sindaco di Padova…». Fabio Gava: «E dire che l’avevo raccomandato io a Galan come assessore regionale…». Luciano Sardelli: «Ma come! Dopo che avevo detto ai nostri della giunta per le elezioni di tenere in ammollo il ricorso di un avversario che poteva dimostrare di essere stato eletto lui…».
L’ha sempre avuta, il Cavaliere, la fissa del «tradimento». Dell’ingratitudine. Dal giorno in cui Umberto gli tolse la fiducia nel 1994: «Mia madre, mio figlio, mia figlia e mia moglie hanno votato per Bossi e compagnia bella ed ora, con questi voti, sfiduciano il governo che ho l’onore di presiedere. Bossi è un Giuda, un ladro di voti, un ricettatore, truffatore, traditore, speculatore. Ha una doppia, tripla, quadrupla personalità ».
Ogni volta che qualcuno lo lasciava, tornava a battere lì: «Del resto capitò anche a Gesù di essere tradito…». Al che il verde Maurizio Pieroni gli rispose un giorno dettando un comunicato: «Nella sua infinita modestia, Berlusconi ha voluto paragonarsi, rispetto alle scelte dei parlamentari Udr, a Gesù tradito da Giuda. Ciò non gli è concesso: c’è un limite, infatti, anche alla sottostima».
Un paio di anni fa, nel pieno del tormentone su Gianfranco Fini, il suo Giornale ci fece un titolone: «La banda dei miracolati / Ecco gli ingrati della politica». Tra gli infilzati c’era di tutto, da Carlo Taormina a Paolo Guzzanti, da Ugo La Malfa a Marco Follini, da Ferdinando Adornato a Michele Vietti. In seconda pagina c’era una «Fenomenologia del miracolato poi azzannatore in tre semplici mosse: fase 1) giurare eterna fedeltà al Miracolante, riconoscendolo come unico Nume democratico, così da accaparrarsi per grazia ricevuta poltrone e nomine altrimenti irraggiungibili. Fase 2: una volta miracolati, manifestare segni di insofferenza e malessere in coincidenza di eventuali presunti cicli calanti del Miracolante o di favori chiesti ma non soddisfatti, segnali prima lievi, poi sempre più ossessivi e perturbanti qualora il suddetto appaia in seria difficoltà o prossimo al disarcionamento (sottoregola elementare: iniziare un petting spinto con l’opposizione riconoscendola come Garante della democrazia). Fase 3: mollare il Miracolante riconoscendolo come unico vero pericolo per la democrazia rimanendo in attesa di eventuale disarcionamento e di nuove prebende dall’altra parte politica».
Chi, se non un traditore e pronto a mordere la mano che lo ha nutrito, potrebbe mandare a monte i progetti del «migliore in assoluto, senza tema di smentita, di tutti i capi di governo della storia d’Italia»? Solo il tradimento, anche nelle fiction, può abbattere l’eroe. È questo il punto: dopo avere ripetuto per mesi e mesi la cantilena che la sua era una maggioranza «coesa» (153 citazioni nell’archivio Ansa nell’ultimo anno) il Cavaliere non può accettare di essere smentito.
Ormai, per lui, era una sfida personale. Che ricalcava una vecchia barzelletta napoletana personalizzata e raccontata in tivù a Mara Venier: «Bertinotti incontra D’Alema e gli dice che Berlusconi è morto. “E come è morto?” “Sai, è andata a fuoco la sede di Forza Italia”. “Come è successo?” “Sai, un compagno passava di là e ha buttato un cerino. Un altro ha buttato della benzina e insomma è bruciato tutto”. “Povero Berlusconi, carbonizzato!” “Nooo, era all’ultimo piano… Si è buttato”. “Sfracellato?” “Nooo, c’erano i pompieri con quei teloni elastici americani. È caduto giù proprio nel mezzo, è rimbalzato su su su ed è ricaduto, non so se hai presente l’ambasciata turca, sull’asta della bandiera”. “Mamma mia! Che brutta morte: infilzato?” “Nooo! È rimbalzato sull’asta e su su su e poi giù giù giù sulle linee dell’alta tensione…”. “Mamma mia! Fulminato!”. “Nooo! È andato ancora su su su e poi giù giù giù… Insomma, l’abbiamo dovuto abbattere”».
No, non era così che se ne voleva andare, l’uomo che per quasi un ventennio ha dominato, bene o male, la politica italiana compiacendosi di avere via via battuto, prima o dopo, tutti gli avversari. Non così.
Non da perdente. Non con i leader europei che si scambiano sorrisetti e che lo bacchettano dicendogli cosa fare. Non con la Confindustria e i mercati che osano sfiduciare lui, «un tycoon che ha creato dal nulla un gruppo da six billion dollars». Non dopo l’ostensione di uno striscione con scritto «Berlusconi’s Miracle» appeso al palazzo del governo dell’Aquila ancora in macerie come non fossero passati ormai quasi tre anni dal terremoto. Non senza neppure un applauso beffardo della sinistra, che ieri lo ha visto affondare quasi incredula e perfino un po’ spaventata dal senso improvviso del vuoto. Non dopo essere rimasto appeso per mesi, come «un qualsiasi Prodi», al voto di uno Scilipoti. Non senza la possibilità di avere la sua nuova rivincita.
E forse questo è ciò che il Cavaliere in queste ore amare, in cui secondo Alfredo Mantovano «ha in testa l’incubo della fine di Gheddafi», sta cercando di preparare. La rivincita. La dimostrazione che lui è più forte anche di questi rovesci, anche della crisi, anche dello scorrere inesorabile degli anni. L’ha già detto, ai suoi, mille volte: «Se fra voi ci fosse un Croce, un De Gasperi, un Salvemini me ne andrei anche, ma non li vedo. Non vedo neanche un Van Basten in panchina…». Certo, c’è Angelino… Ma se le elezioni fossero subito, domani mattina o al più tardi fra un paio di mesi, come potrebbe lanciare nella mischia Angelino se il Migliore è sempre convinto di essere lui?
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