Lettera ai banchieri ridateci quei soldi

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Con “qualcosa” intendo i soldi, quelli che il supplemento del Financial Times dedicato allo shopping spiega “come spendere”, roba che di questi tempi suona come una provocazione. Con “indietro” intendo restituire alla società  che, in patria e all’estero, patisce gli effetti della crisi nata con queste istituzioni finanziarie; la società  che ha dovuto salvare alcune di queste istituzioni perché erano “troppo grandi per fallire”. Con “date” intendo donate. Ora che il Natale è in vista, aprite il libretto degli assegni o il conto corrente online, individuate delle organizzazioni benefiche che davvero aiutano i poveri, i deboli e gli afflitti e donate loro una modesta quota dei vostri (lascio a voi l’aggettivo appropriato) guadagni. Per voi sarà  un’inezia, per i bisognosi sarà  moltissimo.
Ci sono ricchi molto generosi che talvolta preferiscono l’anonimato. Tanto di cappello a tutti loro. Ma in genere – quanto meno in Gran Bretagna – pare che la beneficenza non sia proporzionale alla ricchezza. Il Consiglio nazionale delle organizzazioni di volontariato e beneficenza britanniche (Caf) ha condotto una ricerca dalla quale risulta che i titolari di redditi inferiori alle 32.000 sterline l’anno (circa 37.000 euro) devolvono in media più dell’uno per cento dei loro introiti in beneficenza, mentre chi supera le 52.000 sterline ne dona in media solo lo 0.8%. In proporzione sul reddito i meno abbienti sono più generosi dei ricchi.
Fare un calcolo è indubbiamente difficile perché buona parte dei beni dei ricchi sono costituiti da azioni e da altre forme di capitale o di proprietà  non facilmente quantificabili. Stando alla Classifica dei donatori elaborata dal Sunday Times sulla base della più estesa Classifica dei ricchi, nel 2010 i primi cento filantropi britannici avrebbero dato in beneficenza 2,49 miliardi di sterline, l’equivalente di un quarto dell’importo totale devoluto dai privati nello stesso anno (10,6 miliardi). Non sappiamo a quanto ammontino le donazioni delle quasi cinquemila persone con reddito superiore ai venti milioni di sterline l’anno, che ricadono sotto la giurisdizione di un speciale dipartimento del ministero delle finanze. Ma è certo che molti di loro potrebbero essere ben più generosi senza intaccare minimamente il proprio livello di vita.
John Low, direttore del Caf, ha esortato a devolvere in beneficenza ogni anno almeno l’1,5 per cento del reddito individuale, aumentando la quota in proporzione alla ricchezza. Giving What We Can (www.givingwhatwecan.org) un’organizzazione con sede a Oxford, fissa un obiettivo ancor più ambizioso. Invita a impegnarsi a donare almeno il dieci per cento del reddito annuo. Animato da puro e rigido utilitarismo questo gruppo, capeggiato dal filosofo Toby Ord, esorta a scegliere le organizzazioni di beneficenza più valide sotto il profilo della resa del denaro investito, che producano cioè risultati quantificabili in termini di vite salvate ed altri parametri. È disponibile addirittura un calcolatore on line che mostra ad esempio come donando il dieci per cento di un reddito annuo di 100.000 sterline si possano salvare 368 vite – o finanziare 55.193 anni di frequenza scolastica per i bambini dei paesi in via di sviluppo. Se la coscienza spinge a concentrarsi sui bisognosi del proprio paese (sviluppato), il ritorno sarà  quantitativamente minore, ma comunque molto consistente.
Perché indirizzare l’appello proprio ai banchieri? La motivazione etica non si applica solo a loro, ovviamente, ma a chiunque sia abbiente e in particolare ai dirigenti strapagati delle grandi società . Ma i banchieri con la loro condotta collettiva e i loro errori di valutazione hanno avuto un ruolo chiave nel metterci nei guai.
Avevano accesso più immediato alla grande liquidità  rispetto agli operatori di altri settori. Più che in altri settori hanno fatto la parte del leone nell’intascare i profitti. Tali profitti erano calcolati sulla carta, su base annua, in assenza di valide misure di tutela per il rischio a lungo termine. Le operazioni finanziarie che erano fonte di questi profitti erano in gran parte motivate dalla consapevolezza che si sarebbero tradotte, nel giro di mesi, in enormi bonus da intascare. «Diciamoci la verità » ha dichiarato John Nelson, nuovo responsabile del mercato assicurativo dei Lloyd’s di Londra alla Bbc qualche giorno fa, «la spinta veniva dai guadagni, come in qualunque altro campo». Al momento del crac i responsabili non hanno fatto altro che uscire di scena, la loro reputazione generale appena scalfita. Che differenza con i banchieri di una volta, soggetti a responsabilità  individuale illimitata, nella vecchia flemmatica City dei tempi di mio padre e di mio nonno.
Oppure questi banchieri di oggi hanno continuato ad operare in banche salvate da noi contribuenti. Anche quest’anno torneranno a casa – passando davanti ai dimostranti accampati davanti alla cattedrale di St. Paul – con in tasca enormi bonus ingiustificati. E quando dico ingiustificati intendo proprio che non hanno giustificazione. Continuano a dirci che è indispensabile erogare retribuzioni così alte perché questo minuscolo gruppo di superuomini e superdonne in caso contrario sarebbero allettati ad andare all’estero, Francoforte, New York o Shanghai. Balle. Esistono violinisti, scrittori, imprenditori, tennisti straordinari fantastici, che valgono ogni milione che guadagnano. Gente come Roger Federer, J.K. Rowling, Steve Jobs, Yehudi Menuhin Ma i banchieri?
Trent’anni fa parecchi miei compagni di università  sono diventati banchieri. Senza dubbio erano ragazzi particolarmente brillanti, motivati e volenterosi, ma si può davvero dire che fossero eccezionali, unici, insostituibili? No. Eccezionale era solo la ricchezza che quella particolare professione in quel momento particolare riversava su di loro. Così dopo solo qualche anno uno di loro, davanti a un tavolo ingombro di cataloghi di case di campagna multimilionarie, mi spiegava che la City era stata molto “carina” con lui. Che splendido eufemismo.
Vorrei chiarire che non sostengo, come molti dei dimostranti davanti a St. Paul, l’esigenza di trovare un’alternativa al capitalismo. Serve piuttosto un capitalismo alternativo, più in stile scandinavo che da battello-casinò. Non dico che la beneficenza individuale risolva i problemi di base. Per far questo è necessario un cambiamento strutturale: una barriera se non la separazione totale tra banche ordinarie e banche di investimento (che possano così tranquillamente fallire), norme di recupero fiscale sui bonus che si dimostrino ingiustificati, imposte sulle transazioni finanziarie, e così via. E non voglio neanche dire che quei banchieri fossero cattiva gente. Di fronte ad una tentazione così organizzata, quanti di noi avrebbero resistito?
Dico solo che questi particolari individui, che sono diventati molto ricchi molto rapidamente a spese altrui come si è scoperto dopo, possono fare qualcosa per dare una mano, e subito. Chiamatela espiazione, se vi va. Chiamatelo fare la cosa giusta. Chiamatelo come volete. Ma fatelo. Just do it.
Traduzione di Emilia Benghi


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