by Sergio Segio | 8 Novembre 2011 8:34
IL TIMER è partito. Se si segue la logica e l’esperienza degli ultimi due anni sui mercati, l’Italia non ha più di tre settimane per ricondurre il costo del suo debito a livelli più sostenibili. Si deve far scendere il tasso sui Btp decennali sotto il 6,50%.
Oppure, esattamente fra 15 giorni di contrattazioni, a partire da ieri, cioè il 25 novembre, l’Italia e l’Europa si troveranno di fronte alla scelta fra un piano di salvataggio di dimensioni gigantesche e la bancarotta del debito italiano, con l’apocalisse dell’euro. Ma il timer potrebbe essere anche più veloce: la spirale finale potrebbe cominciare ad avvitarsi già da venerdì prossimo, fra soli quattro giorni, quando le autorità che regolano i mercati potrebbero decidere un ulteriore rincaro del debito italiano, perché ritenuto troppo rischioso.
Né l’una né l’altra sono predizioni. Sono i calcoli ad occhio che fanno operatori ed analisti, sulla base di quanto è sinora avvenuto in questa crisi europea. In particolare, in Grecia, Irlanda e Portogallo, i tre paesi per cui è stato necessario un salvataggio europeo. In media, nei tre paesi, i titoli decennali sono stati trattati ad un tasso superiore al 5,5% per 43 giorni, prima di superare stabilmente la soglia del 6%. Poi, sono rimasti per altri 24 giorni sopra quota 6, prima di scavalcare, in modo continuativo, il 6,50%. Da qui, sono bastati 15 giorni di mercato per sfondare il 7%, largamente ritenuto un livello insostenibile. L’Italia è un paese di un’altra categoria, con fondamentali più solidi e un’economia molto più grande. Ma anche con un debito, in cifre assolute, enormemente superiore: 1.900 miliardi di euro, oltre cinque volte il debito greco. E il percorso dei titoli italiani è sinistramente simile, per certi versi anche più inquietante. Il Btp decennale è stato trattato sopra il 5,50% per 40 giorni, prima di superare il 6%. E’ avvenuto il 28 ottobre. Da allora è bastata una sola settimana (e non 24 giorni) per arrivare sopra il 6,50%. Se non dovesse scendere stabilmente a quote più respirabili, il finale di partita potrebbe essere anche più rapido di quanto avvenuto ad Atene, Lisbona e Dublino.
Anche perché si potrebbe agganciare una ulteriore zavorra, che lo renderebbe rapidissimo. Stavolta, il problema è lo spread, cioè il differenziale fra il rendimento sul Btp italiano e l’equivalente Bund tedesco. Da venerdì scorso, questo differenziale ha superato i 450 punti (il rendimento sul Bund è largamente inferiore al 2%, contro il 6,66% italiano): ieri ha toccato il massimo di 492. Secondo il codice di Clearnet, l’organizzazione che regola gli scambi di titoli, dopo cinque giorni consecutivi in cui lo spread resta sopra i 450 punti, scatta un rincaro dei margini del 15%. In termini più semplici, chi ha presentato titoli italiani come garanzia di un prestito, deve rimpolpare quella garanzia del 15% del totale. Questo significa che detenere titoli italiani costa di più. A questo punto, o gli investitori scaricano i titoli italiani, aggiungendo una valanga alla frana dei Btp, o li spostano agli sportelli della Banca centrale europea, scatenando, probabilmente, un’ondata di panico.
La decisione di Clearnet è, in qualche misura, discrezionale e potrebbe essere dilazionata. Analogamente, non è detto che l’Italia debba ripercorrere la spirale di Grecia, Irlanda e Portogallo. Ma l’allarme è altissimo. La frana dei titoli italiani sta avvenendo, nonostante i massicci acquisti di Btp, da parte della Bce. Da agosto fino a martedì scorso, la Banca centrale europea ha già acquistato titoli italiani e spagnoli (presumibilmente, molto più italiani che spagnoli) per 110 miliardi di euro. Negli ultimi giorni, secondo le voci di mercato, Francoforte avrebbe raddoppiato l’entità dei suoi interventi sui titoli italiani, ma non è riuscita ugualmente ad arginare il crollo. Quota 7% sembra sempre più vicina. Basta un dato per misurare il baratro che si sta aprendo: i Btp ad un anno vengono trattati sopra il 6%. Quelli tedeschi della stessa durata allo 0,25%. Sono livelli che operatori ed analisti giudicano “insostenibili”. Il motivo è che il costo di rinnovare il debito diventa tanto alto da rendere inevitabile un suo aumento. Da qui alla fine del 2012, l’Italia deve emettere titoli per oltre 340 miliardi di euro, solo per rinnovare il debito già esistente. Se dovesse finanziarsi al costo del 7%, anziché del 4,8%, che era il livello dei rendimenti dei Btp decennali, ancora a giugno, dovrebbe sopportare un costo maggiorato di circa 8 miliardi di euro, rispetto a quanto si poteva prevedere prima dell’estate. Per trovare questi 8 miliardi, il governo dovrebbe appesantire tagli e rincari già previsti, deprimendo l’economia e, dunque, il livello delle entrate, con il risultato di aggravare ulteriormente il debito, in una spirale incontrollabile.
Verso un megasalvataggio dell’Italia da parte dell’Europa, allora? Anche su questo, è prematuro scommettere. Se il salvatore deve essere il Fondo salva-Stati, la sua dotazione è troppo piccola per gestire un salvataggio italiano. E, comunque, il Fondo mostra difficoltà a finanziarsi anche di suo: a settembre, i suoi titoli venivano collocati ad un tasso del 2,7% (contro l’1,8 del Bund tedesco). Ora, il tasso è salito al 3,45%.
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