L’addio di Papandreou «l’americano di Atene»

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Nessuno può dire se questo sarà  l’inizio del tramonto politico del premier greco George Papandreou. L’unica certezza è che il leader socialista rinuncia a guidare il governo per lasciare spazio ad un esecutivo più ampio di responsabilità  nazionale, d’accordo con il capo dell’opposizione di centrodestra Antonis Samaras, in preparazione alle elezioni che si svolgeranno il 19 febbraio del 2012. Si cercherà  così di salvare la Grecia dalla bancarotta.
Nessuno può prevedere che cosa accadrà  dopo, se cioè Papandreou riuscirà  a mantenere la leadership del Pasok, fondato da suo padre, oppure se sarà  costretto a passare ad altri il testimone. Un’ipotesi, quest’ultima, su cui è lecito dubitare perché Papandreou, come altri leader appartenenti alle grandi famiglie del Paese, è un capo a vita. In Grecia, per i decani dalla politica, non esiste crepuscolo.
Va subito detto che George non è un uomo fortunato. Quando due anni fa, per la prima volta, riuscì non a vincere ma a stravincere le elezioni con dieci punti di vantaggio sul centrodestra di Nuova Democrazia, sembrava aver realizzato il suo sogno. Durò poco, perché i sospetti che circolavano prima del voto erano pesanti e purtroppo veri. L’allora premier liberal-conservatore Kostas Karamanlis, anticipando i tempi della consultazione, aveva deciso di perdere e non di vincere le elezioni. Il perché si è saputo quasi subito. Il governo di centrodestra, pare con l’aiuto di Goldman Sachs, aveva inviato a Bruxelles bilanci falsi. La realtà  era una vera catastrofe.
Per Papandreou è cominciato il calvario. Avendo lo spirito del calvinista educato, ha affrontato la crisi di petto, convincendosi che i sacrifici da imporre al Paese erano un’opportunità  per avviare quelle riforme di cui la Grecia avrebbe comunque avuto bisogno. Forse in quel momento il leader del Pasok ha sentito la mancanza del carisma di suo padre Andreas: uomo discusso e geniale, che nei momenti di difficoltà  sapeva dar fondo alla sua grande capacità  di visione.
George ha sempre avvertito il peso ingombrante del suo cognome, innervato nella storia moderna del Paese. Suo nonno, che portava il suo nome, fu un avveduto e grintoso primo ministro centrista. Suo padre non era soltanto il fondatore del Pasok, dopo gli anni vergognosi della dittatura dei colonnelli. Creando un grande movimento socialista, aveva impedito che i comunisti egemonizzassero la sinistra, e aveva portato nelle stanze del potere i rappresentanti di quei ceti medio-bassi (in Grecia si parla ancora di classi sociali) che ne erano sempre stati esclusi. L’ultimo Papandreou voleva essere il leader post-moderno della famiglia. Andreas, da greco che conosceva bene il suo popolo, sapeva parlare alla mente, al cuore e alle viscere dei connazionali. Il figlio quel carisma non lo avrà  mai. Troppo educato per essere aggressivo. Troppo nordico per piacere alle masse. Sicuramente capace di sedurre una parte della borghesia ateniese che non ha mai amato il Pasok, ma incapace di scatenare l’entusiasmo nel cuore profondo di un Paese sostanzialmente conservatore.
Non è un caso che per quasi tutti è George, e c’è chi sostiene che il vero americano della Grecia (sua madre è statunitense) sia lui. Tuttavia per la gente è affettuosamente Jorgakis, che vuol dire piccolo Jorgos, a differenza del nonno. Diminutivo toccato anche a Kostakis, l’avversario Karamanlis, per non confonderlo con lo zio che fu il grande tessitore delle istituzioni democratiche greche dopo la dittatura ed ha accompagnato Atene nell’Unione Europea.
George, cui non manca il coraggio, ha pensato di farcela, dimenticando spesso che il suo è un partito di sinistra e non un club elitario. La base del Pasok non sopportava più i sacrifici, e gli stessi deputati socialisti erano pronti a tutto pur di evitare un annunciato suicidio elettorale. Ora, pensare che Nuova Democrazia, cioè i responsabili della devastante crisi, superi il Pasok nei sondaggi, è quantomeno sconcertante. Ecco perché, con un colpo di reni, Papandreou ha ottenuto l’ultima fiducia e poi ha accettato di farsi da parte. In attesa delle future elezioni.


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