L’atlante dei volti perduti che pasolini ci ha lasciato

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Lo stesso anno, il 1961, in cui Pasolini girava Accattone – seguito, qualche mese dopo, da quel furioso montaggio poetico-apocalittico che fu La Rabbia – il grande etnologo italiano Ernesto De Martino intraprendeva un lavoro colossale, rimasto incompiuto alla sua morte, riguardo alla questione delle “apocalissi culturali”. Sarebbe forse molto utile analizzare con precisione le analogie, i parallelismi, le convergenze fra l’opera del poeta e quella dell’antropologo. Come Pasolini farà  tutta la vita, così Ernesto De Martino non esita a diagnosticare delle “fini del mondo” in vari fenomeni storici: la decolonizzazione, la lotta rivoluzionaria, i problemi culturali – o addirittura psicopatologici – legati, per esempio, alla minaccia nucleare.
È dunque attraverso l’osservazione fenomenologica dei corpi e dei loro gesti che Ernesto De Martino – erede in questo senso dei lavori di Aby Warburg o di Marcel Mauss – trova la materia prima per la sua analisi: movimenti, affetti, tecniche corporee messe in atto nei saluti, nei giochi, nelle danze o nelle processioni religiose; tutto ciò costituiva il veicolo, sempre singolare, di un rapporto generale con il mondo. E tale rapporto – come in Pasolini – si formula sempre sotto forma di critica, ossia come consapevolezza di una crisi: quella “crisi della presenza” di cui Ernesto De Martino fa un concetto centrale dell’intero suo approccio etnologico delle “sopravvivenzepagane” nel cattolicesimo: pratiche magiche, trance e danze del tarantismo, lamenti rituali… La sua opera Furore simbolo valore potrebbe quasi essere il titolo – e anche il contenuto – di un poema di Pasolini. La sua ipotesi sui rapporti fra storia e “metastoria” potrebbe giustificare un’estetica uguale a quella del regista di Edipo re, legittimando una certa posizione epistemica nell’osservazione etnografica.
Pasolini incontrò Ernesto De Martino nel 1959, il 6 novembre precisamente: avevano ricevuto ex aequo il premio letterario della città  di Crotone; il primo per il suo racconto Una vita violenta, il secondo per la sua inchiesta Sud e magia. Se la Mater dolorosa filmata dal cineasta per Il Vangelo secondo Matteo – ruolo interpretato da Susanna, madre di Pasolini – ha profonde affinità  con la contadina italiana immortalata dall’etnologo, o meglio dal suo collaboratore Franco Pinna, in pieno pianto di Maria, non è solo perché i due artisti sono accomunati dalla stessa cultura visiva, attraverso il realismo fotografico degli anni Trenta e il neorealismo cinematografico degli anni Cinquanta, ma anche perché l’arte visiva di Pasolini era espressa sotto forma di documentario, mentre la scienza etnografica di De Martino era permeata di un certo lirismo visivo.
Ernesto De Martino, com’è noto, non si accontentava di prendere appunti e misure sul luogo delle inchieste: egli creava atlanti fotografici e archivi sonori per l’oggetto di studio principale, la “crisi della presenza”, soprattutto con l’aiuto del suo assistente Diego Carpitella. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se tale dimensione “audio-visiva” sia sfociata, per esempio, in quel capolavoro dell’arte documentaria rappresentato da Taranta, un film girato in Puglia nel 1961 da Gianfranco Mingozzi, su temi musicali scelti da Carpitella e commentario del poeta Salvatore Quasimodo, direttamente ispirato dallo studio sul tarantismo di Ernesto De Martino e pubblicato nella sua opera La Terra del rimorso. Allo stesso modo, ci colpisce la dimensione essenzialmente documentaria del lirismo pasoliniano: non soltanto perché i suoi film-documentario non rinunciano mai a una forma poetica – e penso soprattutto ai diversi Appunti, sull’India nel 1968 o sull’Africa nel 1969 – ma anche perché i film di fantasia, a cominciare da Accattone o da Mamma Roma, possono essere guardati localmente, nel dettaglio delle inquadrature, come osservazioni etnografiche sui corpi della popolazione. L’arte di Pasolini rivelerebbe, in questo senso, una tipologia estetica ossessionata, come ha detto Hal Foster, dal “ritorno del vero” e che, da Robert Smithson ad Allan Sekula, avrebbe fatto dell’artista un etnografo dell’alterità , sebbene il campo sia, in verità , ben più vasto di quello proposto dalla visione estremamente “americano-centrata” di Hal Foster. Ecco perché il cinema etnografico attraversa l’intera opera di Pasolini: c’è un po’ di Robert Flaherty fino in Uccellacci e uccellini così come c’è, in maniera indubbiamente più visibile, un po’ di Jean Rouch in Edipo re. Ogni volta, infatti, si nota l’approccio ai gesti umani, ai comportamenti fondamentali; ogni volta l’alterità  è resa – nell’Oriente, per esempio – in tutta la sua crudezza, la sua prossimità  e, di conseguenza, in tutto il suo valore inquietante.
La sfidasta nel dare forma all’inquietante prossimità  di un tempo complesso che, mantenendosi a fior di gesto, di ogni gesto presente, non si riduce tuttavia mai alla sua attualità  storica. È per questo che Pasolini ha concepito la questione delle popolazioni al di là  di un’antropologia strutturale e si è diretto – attraverso De Martino, fra gli altri – verso qualcosa di più simile a un’antropologia delle sopravvivenze: «Bisognerebbe riportare il memoriale, egli dice, al di là  delle lingue» in quanto semplici sistemi di segni disposti in sincronia, non fosse altro che per capire, ad esempio, il perché Ninetto sia, al tempo stesso, nostro contemporaneo e nostro “preellenico”. Ecco perché bisogna creare degli “atlanti linguistici”, scavare nella profondità  dei dialetti, osservare questo “patrimonio comune dei segni” che attraversano la storia nel corpo dei nostri contemporanei sotto forma di “segni mimici” (…). È in questo senso che la miseria dei popoli è sfida del dolore: essa protesta oggi contro uno stato di fatto che le è imposto, ma lo fa attraverso gesti che appartengono innanzitutto alla sua cultura, una cultura della quale lo stato di fatto in questione ha pronunciato l’obsolescenza e la sparizione. Tale sarebbe, dunque, il gesto critico dell’antichità , il suo valore diagnostico e politico. Tale sarebbe la necessità  rivoluzionaria dal punto di vista archeologico: «La miseria stratifica: come in una vecchia casa abbandonata, basta poggiare appena il piede per sollevare una nube di polvere soffocante».
La memoria in sé non è né buona né cattiva: né intrinsecamente rivoluzionaria né intrinsecamente passatista. Il punto sta nel suo valore d’uso: da un lato può soffocare i movimenti del desiderio, dall’altro può sovvertire l’apatia del presente, poiché è anche attraverso la loro memoria che i corpi resistono alla storia che li aliena. Ogni primo piano sul viso o sul gesto di un figurante diviene quindi una dichiarazione di sfida – libera ma “isolata”, potente ma locale – del corpo dei popoli contro il loro essere esposti alla scomparsa.
(Traduzione di Valeria Cacace)


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